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Ecologia del vivere: la 'svolta' democratica in Italia

di Stefania Taruffi


Il referendum abrogativo è tornato in vita dopo 16 anni di morte apparente dal lontano 1974 quando, al suo esordio sul tema del divorzio, oltrepassò il quorum fino a coinvolgere l’87,7%  d’italiani. Sulla scia dell’entusiasmo i cittadini hanno continuato a partecipare attivamente anche negli anni successivi, nel 1978 sulla legge Reale (ordine pubblico) e sul finanziamento ai partiti (81,2% di votanti). E ancora, nel 1981 nella campagna per difendere l’aborto (alle urne il 79,4%). Erano i tempi gloriosi dei radicali che, guidati da Marco Pannella, conducevano le loro battaglie a colpi di referendum. Poi un calo significativo che ha fatto fallire tutte le successive proposte referendarie degli anni a venire.

La causa è da ricercare in molte direzioni, dalla politica dell’astensionismo, promossa da molte parti politiche, all’eccessivo numero di quesiti proposti fino alla valanga di proposte referendarie, spesso neanche arrivate al numero di firme necessarie per l’attuazione. A nulla sono serviti scioperi della fame e forti campagne di sensibilizzazione. La cosa più preoccupante, a mio parere, era questo dilagante individualismo e un completo disinteresse dei cittadini alla partecipazione diretta in vari ambiti socio-politici. Una stagione di distacco dalla politica e dalle questioni italiane, sintomo di una democrazia in crisi d’identità e di una rassegnazione allo status quo e alle decisioni prese ‘dall’alto’ di cui nessuno si lamentava.

I giorni del 12 e 13 giugno hanno segnato la fine del torpore degli italiani, pietrificatosi nell’astensionismo, e l’improvviso risveglio del loro senso civico: sono passati i quattro quesiti su acqua, nucleare e legittimo impedimento con un’affluenza del 56,9 dei cittadini italiani alle urne. Questa volta i cittadini non hanno preferito ‘andare al mare’, o delegare i poteri politici a scegliere per loro conto. Né si sono fatti influenzare da chicchessia. A destra o a sinistra essi hanno voluto partecipare e la loro è stata una scelta consapevole, civile, democratica, vitale, forse anche un chiaro segnale di stanchezza al disinteresse, che non aiuta a risolvere problemi e talvolta porta a ritrovarsi nella direzione che non si reputa giusta, di là dalle posizioni politico-economiche. Il popolo sovrano si è espresso e ha scelto il destino di temi chiave che riguardano la gestione delle nostre risorse, così preziose e la giustizia.

La partecipazione alla vita sociale, economica e politica del proprio paese è innanzitutto un dovere dei cittadini e il chiaro sintomo di una democrazia vitale. Lo sono anche le proteste, i cortei, i dibattiti politici, tutti i contesti in cui ci sono uno scambio d’idee e valori, di qualsiasi colore politico. Il dibattito aiuta la crescita, il cambiamento. Fa parte dell’ecologia del vivere, la libertà di poter discutere, avere opinioni, scegliere.

I moti, le rivolte, le svolte in direzione della democrazia in tutto il mondo, laddove essa non vige, sono il chiaro sintomo che la partecipazione dei cittadini alla vita politica e sociale  è un diritto da acquisire, ove non esiste e, laddove è acquisito da qualche tempo, un dovere da esercitare.

Questa volta, dopo tanto tempo, la maggioranza dei cittadini italiani, non ha disertato. Un bel passo in avanti. Ora i cittadini dovrebbero fare un bel passo oltre: informarsi di più, entrare nei dettagli delle problematiche del paese, delle proposte, dei programmi, studiare e capire. Per diventare cittadini ‘consapevoli’ delle scelte che hanno fatto o che andranno a fare. La conoscenza e la cultura aiutano a prendere le decisioni più equilibrate. Un ulteriore passo in avanti lo potrebbero fare proponendo concretamente qualcosa di nuovo, utile, realizzabile, concreto,  attraverso una più attiva e fattiva partecipazione politica che non segua solo le logiche del potere e della spartizione, ma si prenda veramente cura delle sorti del paese. Perché il paese siamo noi.

Foto in licenza CC: Niccolò Caranti

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