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Aleppo di Siria

foto e testo di Giuseppe Cocco
In questi giorni, come d’abitudine, è calata l’attenzione dei media sulle vicissitudini della popolazione siriana, analogamente a quanto successo con la Tunisia, l’Egitto e tutti gli altri paesi della così detta primavera araba. Poco avvezzi all’informazione internazionale, pur in uno scenario globalizzato, travolti dall’incalzare di altre tragedie, da Oslo al crollo delle borse a qualche nuovo militare morto dai fronti delle guerre al terrorismo internazionale, continua a reggere solo, di  tanto in tanto, in maniera sbiadita, la Libia.
Eppure, da quando i giovani della primavera siriana, hanno iniziato a scendere in piazza contro il governo, reo di violarne i fondamentali diritti di libertà, sono morti trucidati dall’esercito del presidente più di 600 civili.
Altre centinaia sono rimasti feriti.
Ed almeno 8000 sono stati arrestati per la colpa di aver osato esprimere pubblicamente il proprio dissenso.
In molte città siriane – tra cui Homs, Idleb, Jablé, Deraa, Soueida e Damasco – ogni venerdì, giorno della preghiera musulmana, è divenuto giorno di mobilitazione settimanale contro il presidente Bashar al Assad.
Tuttavia, la Siria non ci minaccia con i suoi immigrati.
La Siria non ha abbastanza petrolio per ambire alla prima pagina dei giornali.
La Siria è un paese con una insufficiente democrazia ma finora i morti sono “troppo pochi”.
Non è successo nulla di talmente rilevante che ci obblighi a dividerci tra pacifisti e guerrafondai, un’indignazione e partecipazione che pare non ci appartengano più, se non per pochi affari di casa nostra, per un egoismo che impera, ora per la pancia piena, ora perché è vuota, per un’ipocrisia che è uno dei nostri limiti.
Pertanto, per tanti la Siria non esiste.
Eppure nessuno più di me che ho avuto la fortuna di viverci e di stare a contatto con i suoi giovani sa quanto noi esistiamo per i siriani, quanto siamo amati come Europa e come Italia. Vivono ancora in città strutturate e costruite dai romani, guardano e aspirano all’Unione Europea. Sono un popolo mite dai ritmi orientali, rispettoso delle differenze culturali e religiose; un paese dove convivono la religione mussulmana e cattolica, mussulmani di varia tradizione, per le strade si incontrano donne con il chador, il burka (arabo: برقع, burqaʿ) e ragazze vestite all’occidentale, perfino con la minigonna.
Non per niente il mio amico Paolo Dall’Oglio, anni fa trovò qui in Siria il terreno fertile per un percorso spirituale di riconciliazione e dialogo interreligioso, e decise di trasferirsi nel deserto siriano a Deir Mar Musa http://www.deirmarmusa.org per fondare una comunità con l’intento di far dialogare le due grandi  religioni monoteiste.
Era il 1982, momento di grandi sofferenze nella regione, e Paolo Dall’Oglio, allora giovane gesuita arabizzante giunse alle rovine del monastero di San Mosè l’Abissino, sulla montagna ad Est di Nebek, per un ritiro spirituale di dieci giorni, scoprì tre priorità ed un orizzonte. La priorità delle priorità è la riscoperta del significato assoluto e non strumentale della vita spirituale, della vita di preghiera; la seconda priorità è quella di elaborare una vita di semplicità evangelica in responsabile armonia con il creato e la società circostante, e comportante la riscoperta del significato dell’attività manuale e del valore del corpo e delle cose, in un’estetica della giustizia e della gratuità; la terza priorità è quella dell’ospitalità. L’orizzonte è quello della relazione islamo-cristiana. Tale relazione, non sempre facile nel passato ed ancora difficile e sofferta in molti luoghi, è parte integrante della vocazione spirituale dei monaci e delle monache di Deir Mar Musa. Su quella base ed attraverso campi di lavoro e di preghiera, si mosse l’attività di restauro, e ciò fin dal 1984 (anno di ordinazione sacerdotale nel Rito Siriaco di P. Paolo). Mentre la rifondazione stabile della comunità monastica iniziò a partire dal 1991, assieme al diacono aleppino Jak Murad.
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