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Sai che pesci pigliare?

di Mariano Colla
Una tranquilla serata al ristorante.
L’allegro brusio dei commensali fa da sfondo alle conversazioni che si intrecciano tra gli avventori.
Il menù offre un’ampia scelta di pietanze. Una interessante lista di opzioni stimola la fantasia enogastronomica del cliente: baccalà all’emiliana, branzino al cartoccio, branzino in crosta di sale, calamaretti fritti, coda di rospo ai pomodorini, carpaccio di spada al pepe rosa, bastoncini di merluzzo, filetti di persico in crosta di pane, tanto per citare alcuni dei piatti sapientemente elencati sulla carta.
L’atmosfera è piacevolmente rilassante, come si addice ai ristoranti sensibili all’estetica oltre che alle  morbide piacevolezze del cibo.
Senza volerlo, ascolto la conversazione tra il cameriere e un  coppia di persone mature che siedono al tavolo accanto.
L’attempato commensale chiede informazioni sul pesce indicato sul menu, in particolare sulla freschezza e sulla provenienza.  Il solerte cameriere vanta la tradizione del locale nell’approvvigionarsi di pesce fresco dalle limpide acque del Mediterraneo.
Orate, Spigole, Calamari, Gamberi e Gamberoni, Polpi, Dentici, Cernie e così via, sembrano emergere dal  serbatoio infinito del “mare nostrum” per soddisfare i sofisticati palati dei clienti, ignari del fatto che le cose, purtroppo, non stanno proprio così.
Infatti, mentre  la coppia in questione fa le proprie scelte, rassicurata dal solerte “maitre”, mi ritornava in mente quanto letto recentemente su una inchiesta di “La Repubblica”, circa l’origine di una consistente parte  del pescato che arricchisce  le nostre tavole, inchiesta a cui la situazione specifica mi suggerisce qualche ulteriore commento.
Vi è una naturale tendenza  a ignorare o a diffidare di quanto documenti, studi e statistiche  riportano da tempo, ossia sull’impossibilità del Mediterraneo  di soddisfare la domanda dei milioni di potenziali consumatori della fauna ittica.
Una pesca senza controllo, l’uso di mezzi quali le reti a strascico e una gestione dissennata delle riserve ittiche del Mediterraneo, hanno progressivamente impoverito la capacità riproduttiva dei pesci autoctoni dei nostri mari.
Insensibilità politica, scarso spirito di programmazione e collaborazione tra gli Stati, ritardano soluzioni accettabili e nel frattempo i nostri mari muoiono, ma quando andiamo a tavola vogliamo coltivare l’illusione  di essere ancora destinatari di un pescato fresco e autoctono.
In tale illusione non ci accorgiamo, o non vogliamo accorgerci, come dice il quotidiano, che sempre meno raramente  “il pangasio del Mekong viene venduto come filetto di Cernia o che il polpo di Mola proviene dal  Vietnam, oppure  che lo squalo smeriglio viene spacciato per spada, o anche che al posto del  baccalà si vende il filetto di brosma, e al posto delle spigole viene offerto il pesce serra”.
E tutto ciò giusto per citare alcuni esempi.
Limitandoci al nostro paese, stime della Coldiretti dicono che il 75% è la percentuale di pesce non italiano servito sui tavoli dei ristoranti di casa nostra.
La serietà imporrebbe una maggiore trasparenza da parte dei fornitori, siano essi i commercianti al mercato, i negozianti, ovvero i ristoratori.
Ma purtroppo si sa come vanno queste cose.
Viviamo nel globale ma riteniamo che la dimensione locale sia  autosufficiente, illudendoci che ciò che mangiamo sia il prodotto dei nostri campi e dei nostri mari.
Della globalizzazione  accettiamo ciò che psicologicamente ci soddisfa, quale per esempio la transumanza turistica, che ormai ci consente di viaggiare in ogni dove a prezzi scontati, indipendentemente dal progressivo logoramento delle differenze etniche e culturali che una volta rappresentavano la diversità tra i vari paesi.
Nel contempo auspichiamo, soprattutto a casa nostra, che vengano mantenute tradizioni e luoghi comuni che ci consentano di differenziarci dal processo omologativo della globalizzazione.
E se tali considerazioni hanno valenza  generale, sono ancor più vere quando riferite alla cucina e alle sue materie prime.
Siamo tuttora convinti di potere accedere a piene mani alle riserve naturali del nostro territorio, volontariamente ignari della loro progressiva riduzione a causa delle cecità delle istituzioni preposte a conservarle e a riprodurle.
Il punto è che sulla progressiva riduzione delle riserve locali  c’è chi ci lucra. Ritornando a parlare di pesce, come si determina l’invasione massiccia di specie straniere? Chi trae profitto dalla progressiva penuria dei nostri mari?
Non serve molta fantasia per indicare nelle grandi strutture industriali o, peggio, nella  malavita organizzata i maggiori responsabili dei flussi di import-export.
Il famoso tonno di Carloforte  è praticamente sparito a causa degli accordi di esportazione firmati tra  imprenditori sardi e giapponesi, per assicurare sulle tavole del Sol Levante il prezioso “sushi”, con la conseguente sparizione dai mari della Sardegna di una specie di pesce pregiato.
Il business del pesce si sta sviluppando grazie all’ importazione dall’estero di pescato di mediocre qualità, pesce che viene  rivenduto a negozianti e a  ristoratori garantendo a tutti succulenti margini di profitto, di cui la vittima finale è l’ignaro consumatore.
Certo ci sono eccezioni, spero anche molte, ma, affinché non rimangano tali, il consumatore stesso e le associazioni che ne curano i diritti  devono prestare attenzione e denunciare i casi sospetti, sempre che sia facile individuarli.
Come dice, infine, l’articolo della Repubblica : “non deve essere trascurato il rischio sanitario”.
L’inchiesta del quotidiano evidenzia, infatti, alcuni risultati di una indagine del Rasff  (Rapid  Alert System for Food and Feed), l’agenzia di sicurezza alimentare dell’Unione Europea.
Tali risultati dicono che: “ sono stati trovati batteri in molluschi italiani, cadmio in calamari congelati che arrivavano dalla  Spagna,  salmonella brunei nella salsa cocktail a base di gamberi congelati prove¬nienti dal Bangladesh e confezionata in Italia, infestazione di larve di nematodi nel nasello congelato in  Spagna, mer¬curio in filetti congelati di squalo blu e pesce spada”.
Speculazione senza scrupoli che può inquinare quel che si fa di buono nel settore. Speculazione a cui bisogna prestare attenzione, anche noi, come semplici cittadini, che non dobbiamo alimentare l’immaginario collettivo in base al quale l’Italia, terra circondata dal mare, non può che offrire pesce fresco e locale ai propri bramosi commensali.
Temo che la gentile coppia a cui mi riferivo all’inizio dell’articolo, debba farsene una ragione se sul piatto, in luogo di una deliziosa porzione di dentice rosa si sarà trovata  del pagro fresco proveniente da chissà dove, con buona pace del cameriere, involontario attore, forse, di una ulteriore truffa a danno del cittadino.

foto: http://www.wwf.it

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