di David Spiegelman
Triste, triste davvero il Paese in cui un gesto morale elementare, come rifiutarsi di andare a letto con un vecchio in cambio di un posto al sole, assume i connotati dell’eroismo, fino ad accartocciarsi in favola impossibile, dove le cose non sono le cose e i sì e i no diventano facce opposte di uno stesso specchio velato, nel lutto della dignità. In quest’Italia incenerita, sul muro sbrecciato è stato proiettato il film antichissimo del baratto tra bellezza e successo, un film sul quale è davvero impossibile astrarsi nella parte del moralista. In quasi tutti i bar, perfino nel mio stanzone e nelle trattorie e locande che bazzico per via del nomadismo professionale, ho ascoltato per mesi editti e anatemi di abissale derisione e dispitto e disprezzo, nei confronti di quelle ragazzone improblematiche nell’usarsi e farsi usare, per raggiungere il punto del palcoscenico illuminato dall’occhio di bue, se non qualcosa di impensabile, ai tempi in cui la favorita veniva locupletata con il classico negozio di modista. Non che intendessi difendere costoro, anzi mi è spesso occorso di subire la legge antichissima e innata che in quasi tutto privilegia l’apparenza alla sostanza, perché – disse l’infelice licantropino recanatese – virtù non luce in disadorno ammanto. Spegnendosi il chiacchiericcio, domandavo a qualcuno degli scandalizzati: ma se ti avessero proposto qualcosa di simile, per un posto di corrispondente da Parigi, o una vicedirezione ragguardevole, quale sarebbe stato il tuo comportamento? Le risposte, naturalmente, prolungavano lo stato di indignazione morale: ma certo che non avrei accettato. Tanto, obiettavo, è un discorso che resta tra noi qui al bar, bisognerebbe trovarcisi davvero e a quel punto, come diceva un leggendario collega scomparso che negli anni Settanta conduceva ditirambiche telecronache, «salta chi salta». Dall’Iliade in poi, tutto sommato, il fattore F è stato concausa se non elemento dirimente in parecchie faccende; a pensarci bene, nemmeno Adamo avrebbe ascoltato il serpente, se non sottoposto al pressing della sua ex costola.
Giudicare quel che altri fanno, pertanto, non è tra i miei prediletti esercizi: se fossi nato in determinate circostanze e con certe qualità, sarei riuscito a resistere all’idea di far carriera più velocemente, o farne una migliore, sfruttando strumenti impropri? Non ho avuto l’occasione e quindi mi è facile, in astratto, rispondermi di no. Però ci sono giornate amare, bicchieroni di olio di ricino, pouf di Fracchia su cui non è possibile non sedersi, insomma un campionario di mortificazioni e umiliazioni, allora chiudi gli occhi e pensi: fossi nato donna e affascinante, sarei andata davanti al cancello della villa fino a che non mi avrebbero fatto entrare, e cosa vuoi che sia farsi sottomettere per un’ora una notte tante notti, piuttosto che per tutta la vita? E quando arrivi a dirti queste cose, fosse anche solo per un momento, vuol dire che hai perso, e per sempre. Ed è una sconfitta che contagia una generazione, più generazioni, un Paese illuminato da cupi bagliori neobizantini. Per questo, quando vero o falso che sia leggi di una che pure sui rotocalchi ci era finita insieme con il discendente di un despota, con un giovanotto di cui si dubitava quanto a orientamenti ormonali, con questo e con quello, ma che davanti a quel cancello non ci è voluta andare, potresti pure sentirti meglio. Ma poi ti sentiresti peggio, perché se è sventurato il Paese che ha bisogno di eroi, ancor più irredimibile è quello che consacri questa strana forma di antieroico eroismo.