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Medicina di domani, etica di ieri

di Mariano Colla

Il rapporto tra medicina ed etica sollecita riflessioni profonde, induce considerazioni e coinvolge categorie che toccano l’animo umano nelle sue variegate disposizioni verso i limiti posti dalla natura e l’altrettanto naturale tendenza dell’uomo a superarli. Il prof. Giuseppe Remuzzi, scienziato e nefrologo di fama internazionale ha affrontato il complesso argomento nel corso di una conferenza tenuta presso l’Accademia dei Lincei. Medicina ed etica sono innanzitutto figlie della storia, entrambe condizionate dal contesto socio-culturale in cui si sono evolute e definite. Lo sviluppo scientifico della prima ha dovuto adattarsi ai conservatorismi della seconda, in una dinamica che il tempo non ha ammorbidito ma, bensì, reso ruvida e conflittuale anche ai giorni nostri.

Partendo dalla morte di Cavour e dal racconto che ne hanno fatto il “Lancet”, il “British Medicai Journal” e, negli Stati Uniti il “New England Journal of Medicine”, tra il 15 giugno e il 17 agosto del 1861, si ricava un quadro poco professionale dei medici italiani al capezzale dello statista. Gli eminenti clinici, preda dei dettami di una medicina tradizionale poco aperta alle novità scientifiche, sottopongono l’uomo politico piemontese a salassi di ogni tipo quale unica e antiquata forma di terapia, nonostante la disponibilità di cure più moderne e avanzate. Una grave responsabilità nella morte prematura del Conte Cavour.

Critiche in contrasto con quanto l’Inghilterra affermava sul ruolo storico della medicina in Italia, convinta come era che persino Harvey (scopritore della circolazione del sangue e fondatore della medicina moderna) non sarebbe pervenuto ai suoi  eclatanti risultati senza l’educazione scientifica ottenuta a Padova, alla scuola di Fabrizio Acquapendente e di Casserio, professori italiani di anatomia umana del XVI secolo.

Da allora, la scienza e la medicina italiane, da protagoniste quali erano, hanno progressivamente assunto ruoli marginali nel mondo scientifico in ebollizione della  seconda metà dell’800. Un declino culturale, oltre che scientifico, con serie responsabilità dello Stato Pontificio, che richiedeva alla medicina di sottrarsi alle lusinghe degli studi di anatomia e degli interventi chirurgici, giudicati invasivi della dignità umana. Il salasso rappresentava la soluzione medica più adottata, ignorando quanto la scienza e la medicina stavano sviluppando in Europa. L’etica religiosa influiva pesantemente sulle coscienze di medici, clinici e sanitari. Un inquietante mix di trascendente e di tradizione emarginava la medicina italiana dai progressi scientifici in corso. Sostiene Remuzzi che i “Congressi degli Scienziati Italiani” venivano organizzati annualmente, ma proprio in occasione del primo convegno del 1839, tenutosi a Pisa, il Papa Gregorio XVI, spaventato all’idea che questo diventasse un congresso di liberali e sovversivi, impedì a Carlo Matteucci, celebre fisico italiano, di prendervi parte.

Le conseguenze di tale oscurantismo si sono manifestate via via nel corso degli anni, in un arco di tempo che va dal 1930 al 1960, periodo in cui nella medicina è successo di tutto. Dai primi sulfamidici agli anestetici, dal DNA ai vaccini e ai primi i primi interventi a cuore aperto è stato un susseguirsi di scoperte, in cui il contributo degli italiani è stato modesto, fatta eccezione per la scoperta della doxorubicina, il primo farmaco anticancro lanciato nel 1960 per merito della Carlo Erba. Gli italiani che hanno avuto il Premio Nobel per la medicina e la fisiologia sono stati solo sei, ma quattro di loro (Salvador Luria, Renato Dulbecco, Rita Levi Montalcini e Mario Capecchi) lavoravano negli Stati Uniti.

Per quanto riguarda il presente, il Prof. Remuzzi affronta i temi della fecondazione assistita, delle cellule staminali e del testamento biologico, argomenti complessi in cui il rapporto medicina etica è stato causa di invereconde diatribe tra laici e cattolici, gli uni contro gli altri in una lotta di posizione alimentata, spesso, da una diffusa ignoranza in materia. Remuzzi ricostruisce puntualmente l’evoluzione normativa che ha condotto alla legge 40 del 2004, evidenziando le ingerenze di natura etica che ne hanno determinato la peculiarità tutta italiana. La legge 40 prescrive che si possono produrre solo tre embrioni per volta, tutti da trasferire nell’utero della madre. La fecondazione assistita funziona nel trenta percento dei casi e, limitandola a tre embrioni, la percentuale si abbassa ulteriormente. La legge vieta ogni forma di selezione degli embrioni, norma in contrasto con i principi di una medicina finalizzata a salvaguardare la salute del paziente. Nè si può ricorrere alla fecondazione eterologa. Sono limiti cavillosi e incomprensibili, sostiene Remuzzi, dettati dall’etica del “non expedit”. Limiti che non esistono negli altri paesi europei e gli italiani aggirano le restrizioni della legge andando all’estero. Irta di ostacoli normativi si presenta anche la ricerca sulle cellule staminali embrionali, fondamentali nelle cure di molte malattie degenerative. La loro produzione è proibita nonostante possano essere estratte anche da embrioni morti. Intanto si è affermata in Italia la posizione di chi è contro la produzione di cellule embrionali, sulla scorta di presunte certezze scientifiche che sembrerebbero avvalorare il raggiungimento degli stessi risultati clinici con l’impiego di cellule adulte. Ma secondo Remuzzi questo non è vero. I risultati ottenuti sulle staminali adulte sono ben lontani da assicurare certezze.

Non sfuggono allo scontro etico le disposizioni di fine vita e i diritti dell’individuo. Dice Remuzzi: In tutto il mondo fare il medico è rianimare, ma anche saper sospendere le cure quando sono inutili. Fa parte delle nostre responsabilità. A tutela di chi non ha più speranza, perché non debba subire trattamenti inappropriati, alimentazione e idratazione aiutano a guarire ma ci sono casi in cui farlo aumenta le sofferenze anziché alleviarle.

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