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Il nuovo governo

di Mariano Colla
 

Sono stati giorni frenetici, animati da un dibattito politico e istituzionale rovente, laddove l’arena politica è stata testimone di scontri, veti incrociati, equilibrismi tattici, della cui reale sostanza non sempre si è capito il senso, se non in una logica di difesa di privilegi e prerogative di parte. La necessità di un accordo tra le forze che si sono contrastate in questi ultimi anni con rara virulenza ha prodotto convulsioni e ritorsioni che hanno scosso coscienze, interessi e privilegi, mettendo a nudo non tanto le deficienze della politica di per sé, quanto le manchevolezze e gli egoismi della classe politica attuale.

L’Italia, nonostante il progressivo declino, troppe volte non è apparsa come la priorità numero 1 nell’agenda dei nostri governanti. Solo sull’orlo del baratro, e dinanzi a improrogabili interventi e improcrastinabili scadenze, la nostra classe politica ha dovuto abdicare al suo ruolo rappresentativo istituzionale per consentire la creazione di forme di governo più credibili ed efficaci. Parlando con la gente in strada, nei negozi, nei mercati rionali, nei supermercati, emerge, indipendentemente dal colore politico, una diffusa sfiducia nei confronti di senatori e deputati, e, contemporaneamente si consolida una decisa tendenza a favore di un governo “tecnico”.

Sebbene dettato da una situazione di emergenza, il governo tecnico, ancor prima di ottenere la fiducia al senato e alla camera dei deputati, gode di un ampio consenso popolare, frutto delle delusioni che la politica istituzionale ha progressivamente fatto maturare presso gli elettori. Consenso riconducibile, almeno in parte, a una sensazione psicologica di sicurezza che il termine “tecnico” evoca nel riaffermare competenze, esperienze, capacità e virtù etico-morali, doti quanto mai necessarie per alleviare molte delle preoccupazioni che assillano la vita quotidiana degli italiani, i loro risparmi e le loro aspettative. Molti dei nuovi ministri, pur avendo ricoperto cariche di prestigio nel panorama privato, pubblico e istituzionale del nostro paese, sono probabilmente ignoti ai più.

Ciononostante, per il semplice fatto di essere definiti tecnici, fugano le molte perplessità, diffidenze e timori che la gente comune, da tempo, ha maturato nei confronti della classe politica. Non è certo un buon segno per i principi della democrazia, ma tant’è. La diatriba sulle elezioni ha infervorato le forze politiche, ma la gente comune ne è rimasta sostanzialmente estranea e, non a caso, ha posto il presidente della Repubblica al vertice dei gradimenti, secondo i sondaggi.

E anche in questo caso, nella misura in cui Giorgio Napolitano, nel suo ruolo di capo dello Stato non è un politico ma un difensore delle istituzioni può, a buona ragione, ricadere nella categoria dei tecnici. C’è quindi da chiedersi e, forse, da augurarsi, che questa pausa, che personalmente spero duri sino a fine legislatura, induca i partiti a riflettere sulla loro effettiva capacità di rappresentare i cittadini nelle esigenze più concrete.

In varie occasioni si è detto che gli italiani non sono maturi per la democrazia e che facili forma di demagogia e populismo possono indurlo a scelte avventate e poco ponderate. Certamente è vero che l’italiano è emotivo, sensibile, un po’ sognatore ma, nel contempo, possiede una sufficiente dose di buon senso, utile a guidarlo nella definizione delle priorità da privilegiare e, nella misura in cui la politica non recepisce tali istanze, l’elettore si sente tradito e si richiama a principi di trasparenza, affidabilità e prospettiva che, come nel caso specifico, sono demandate a forme di sovranità, giudicate dalla politica istituzionale, non democratiche.

Si dice allora che la politica ha abdicato al suo ruolo, perché al governo Monti si è giunti senza elezioni e nessuno dei suoi componenti è stato eletto dai cittadini. A mio modo di vedere anche la scelta di un governo “tecnico” è una scelta politica. Ogniqualvolta vi è trasferimento di potere si fa una scelta politica. Quindi, in questo caso, mi sembra più corretto individuare la causa dell’estromissione dei partiti dal governo non tanto nella politica, quanto nel fallimento di una classe dirigente specifica che ha condotto il paese nell’attuale situazione.

Il correttivo tecnico proposto, e in via di attuazione, più che essere considerato antidemocratico dovrebbe suggerire riflessioni a chiunque un domani ci dovrà governare. La situazione contingente ha imposto, dunque, un trasferimento di potere non canonico ma, non per questo, anticostituzionale. Da un sistema politico basato sul carisma, quale strumento di consenso alla ricerca di un potere fondato non tanto sulla razionalità degli assetti normativi, ma su una legittimazione ricavata direttamente dal rapporto con le masse, ci si sta muovendo verso un sistema di potere basato su una razionalità di scopo, i cui valori di riferimento, al di là delle competenze tecniche, si fondano su un quadro normativo e istituzionale quale struttura portante della propria credibilità. Sono due sistemi che si contendono la scena in un contesto tecnico-strumentale.

La razionalità tecnica contro un’eccessiva frammentazione dei valori. Tuttavia chi legittima il potere tecnico è la politica. In un mondo sempre più inquieto è bene che la vita democratica sia garantita da coloro che sanno e, se il termine tecnico non piace alla politica, essa si deve comunque far carico di competenze indispensabili per governare. Lo impone un contesto irto di insidie, sempre più difficile da gestire, dove la tecnica, nelle sue multiforme dimensioni, non ultima la stessa finanza, domina mercati e comportamenti umani.

Se non è auspicabile una politica a ricasco della tecnica, è tuttavia fondamentale che la politica arricchisca gli strumenti interpretativi della complessa realtà che il mondo moderno le presenta. Anche la politica necessita di formazione per ampliare i propri orizzonti di indagine e uscire da una pura dimensione quantitativa di natura elettorale.

Si dice che il politico non ama essere informato perché più sono i dati a sua disposizione più difficile diventa la scelta. Ebbene penso sia ora di cambiare paradigma.

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