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Silvina Maestro: la semiotica dei materiali e dei colori


di Annalisa Sofia Parente
Sabato 28 gennaio.
Sono le 13.30 e la Sala Baglivi di Santo Spirito in Sassia pullula di ospiti e giornalisti affamati.
Quando le luci si spengono, nel fondo della passerella c’è solo una scritta nera di fondo che resta immobile in un rettangolo bianco, quasi fluorescente: Silvina Maestro.
Perché è lei che in questi venti minuti di passerella disegnerà per noi l’essenza dei suoi precedenti disegni trasformati in abiti deambulanti.
Silvina Maestro lascia i suoi natali in Paraguay prima di trasferirsi in Europa collezionando una serie di illustri collaborazioni con Riccardo Tisci, Emilio della Morena ed Alexander mcQueen.
Ma prima di diventare una valida stilista, Silvina aveva intrapreso in Uruguay un percorso di studi letteratura e legge. Dettaglio biografico per me apparentemente trascurabile, prima che cominciasse la sua sfilata.

Poi… tutto un iter eterogeneo e pindarico di vita è sembrato vibrare in una sintesi evidente, a tratti ovvia: Silvina non ha mai smesso di inseguire il significato e il significante della parola. Ne è rimasta vittima e adorabile schiava, anche quando ha virato il suo percorso per amore di disegni e stoffe.
In fondo, la forma non contraddistingue e investe di carica emotiva solo un disegno, ma anche il verbo. Stlista o poeta è la stessa ma non medesima cosa.

E così Silvina Maestro ha portato in passerella delle creazioni monocromatiche in successione bicromatica: abiti bianchi e neri si sono alternati lasciando in bocca l’amara attesa di un’esplosione di colore.
Abiti romantici, con appendici di volants alle maniche, gonne ampie lunghe o al ginocchio e drappeggi alle spalle come fossero ali di cigno cero non del tutto spiegate si sono alternati ad altri abiti spartani che sembravano coprire il corpo come fosse una reliquia sacra, impermeabile alla corruzione dei tempi e dei desideri contemporanei.



Poi, come per disabituarci a quella esasperata e pudica linearità e a quel casto romanticismo, la stilista ha proposto delle creazioni dai volumi eccentrici e inaspettati (come i grossi colli drappeggiati e groppe di stoffe che richiamavano un po’ una geisha, un po’ un dromedario) nonché tagli e stoffe sfacciatamente sensuali tradotti in seni scoperti da un buco di stoffa o coperti da veli sottilissimi ritrovati anche in inserzioni ondulanti lungo l’intero corpo.

L’esplosione di colore bramata si è tradotta, sullo svolgersi del defilèe in una implosione semiotica, come se questa disciplina ardua e un po’ affettata, potesse lasciare in ogni sguardo presente il peso e l’ermetica dei segni della stilista. Forse, quel disorientamento finale degli spettatori non è stato solo il frutto di quel peso e di quell’onere semiologico. C’era qualcosa di più: la fame? Forse. La noia? Probabilmente.

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