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La normalità

di Mariano Colla
Ieri la televisione ha dato l’ennesima notizia di un dramma familiare: a Giaveno, provincia di Torino, un genitore di 47 anni colpisce a morte il figlio di 17 con un martello e poi si toglie la vita, uccidendosi con una coltellata. I vicini di casa, intervistati dai giornalisti sulle ragioni dell’accaduto, non hanno saputo dare spiegazioni, limitandosi a un giudizio formale del tipo: era brava gente, sembravano del tutto “normali”. Per la cronaca nera l’evento non rappresenta certo una novità.
In questi anni la televisione e la stampa hanno dato un particolare risalto ai drammi familiari, chi non ricorda Cogne, non tanto, o perlomeno non solo, per pure esigenze informative ma, aggiungerei, per soddisfare un morboso interesse di lettori e spettatori.
Il punto è che ogniqualvolta veniva richiesto un commento o una opinione ad amici conoscenti o semplici vicini delle malcapitate vittime, emergeva un senso di sorpresa e di smarrimento dinanzi a comportamenti talmente assurdi perpetrati da persone giudicate “normali”. Dinanzi al susseguirsi di tali drammi, laddove violenze assurde insanguinano la scena mediatica, il commento della comunità lascia perplessi.
Apparentemente non ci sono alibi, ragioni plausibili a giustificazioni di tali atti efferati, vista la presunta normalità dei soggetti coinvolti, del tutto inseriti nella vita di quartiere, rispettosi delle regole e dei ritmi della collettività. Sorge spontaneo chiedersi se sono leciti e giustificabili, oltreché comprensibili, commenti di tal fatta, espressi da un presunto circolo di confidenti nei confronti di chi ha elaborato il proprio dramma sino alle conseguenze estreme. E’ credibile che le vittime abbiano circoscritto la sofferenza o la pazzia nella loro intimità al punto da non renderne in qualche modo visibili dei segnali premonitori?
No, a mio avviso non è credibile.
Mi viene più spontaneo pensare che il giudizio di “normalità” provenga da una sostanziale indifferenza che l’individuo comune manifesta nei confronti dei singoli componenti di una comunità. Il rapporto tra noi e gli altri si sta via via spogliando di un senso di solidarietà e di attenzione, per lasciare il posto a una più diffusa superficialità. Le priorità relazionali sono scandite dal mantenimento di un sostanziale disimpegno che assicuri serenità ed eviti componenti ansiogene. E’ vitale la protezione del proprio ambiente esistenziale, famiglia o single che sia, dalle  incursioni dettate da un eccesso di relazione con il mondo esterno, soprattutto quando  tale relazione assume dimensioni interpersonali impegnative sul piano psicologico. Anche se questo non vale per tutti, per molti rappresenta la norma.
Nei confronti di segnali preoccupanti che possono emergere dal comportamento altrui vi è una naturale autodifesa, vi è il desiderio di minimizzare il fatto per non essere coinvolti, entra in gioco un meccanismo di salvaguardia che smussa e appiana, riconducendo il tutto nell’alveo della suddetta normalità.
Subentra la tendenza a non vedere e a non sentire, a non recepire segnali premonitori per poi esprimere il proprio stupore quando il dramma si manifesta in tutta la sua tragicità.
Nei confronti della solitudini esistenziali e psicologiche, spesso all’origine di comportamenti estremi, vi è una sostanziale indifferenza sociale e individuale. Un possibile perché? Il rapporto con gli altri è il risultato di una dialettica in cui ognuno deve spendere se stesso, impegnando risorse fisiche e intellettuali, e questo non è da tutti. Viviamo in un’epoca nella quale la società e i costumi sembrano privilegiare l’autonomia a scapito dell’autenticità e nell’autonomia l’arricchimento del “sé” va spesso a scapito del rapporto con l’altro. Sarebbe pertanto auspicabile un recupero dell’autenticità in ognuno di noi. Ma che significato vogliamo dare a questo concetto di autenticità per non confonderlo con l’egoismo, con l’amor proprio, come diceva Rousseau?
In filosofia l’autenticità può essere declinata in molti modi ma una definizione che mi convince è: capacità di coincidere con la massima ricchezza del “sé”. Nota bene, massima ricchezza del sé e non l’ammissione prosaica: io sono fatto così. Meraviglia e dolore sono due aspetti dell’autenticità, mentre la superficialità e l’indifferenza svuotano l’uomo dalle sue prerogative più nobili. E il rapporto con l’altro non può essere privo di tali prerogative. L’idealismo tedesco sosteneva che ciò che avverto definitivamente “altro da me”, corrisponde solo a un buco nero del mio io, fonte di paura  e terrore che mi obbligano a una identità protetta  che espelle definitivamente l’altro in una radicalizzazione del “non io”. Unificarsi con la vita degli altri e del mondo significa unificarsi  con la propria vita, con se stessi,  con il proprio io.
Nell’autonomia l’alterità è esterna, l’altro è fuori di me, mentre nell’autenticità l’altro è dentro di me, l’altro non è più l’estraneo. Non vi è necessariamente nulla di mistico o religioso in tali affermazioni.
Il soggetto moderno ha conquistato l’autonomia e ha rotto con le strutture dell’autoritarismo ma rischia di vivere una vita astratta, confinata nella individualità,  e nella riproduzione del proprio “sé”, con il sospetto della alterità, da cui si difende impoverendo la relazione al punto da non conoscerla e classificarla come normalità.
Nella composizione dell’apparente dissidio tra autonomia ed autenticità si può forse identificare il vero processo di arricchimento dell’essere umano, soggetto complesso che,  proprio nella sua autenticità più vera, identificabile, come diceva Heidegger, in “quella della morte”, non può essere banalizzato come individuo “normale”.

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