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Ecologia del vivere: va di moda uccidere le donne

Di Stefania Taruffi
Quest’anno la festa delle donne avrà meno mimose, gelate nel nostro rigido inverno e duramente colpite dal Burano. Nell’entroterra della provincia di Imperia, dove c’è il 95% della produzione nazionale di mimose, si è registrato un crollo del raccolto di questo meraviglioso fiore, pari al 50-60% (Confagricoltura). Alla crisi di vendite degli ultimi anni si è aggiunto dunque il maltempo, che ha compromesso la crescita e la fioritura del fragile fiore dedicato alle donne.
E come i loro fiori, anche le donne stesse sono uccise sempre di più. Non dal caso, dalle malattie, ma dai propri compagni, per eccesso di odio, o di amore. Aumenta infatti vertiginosamente il numero di uomini, fidanzati, amanti, mariti, spesso ex , che uccidono le loro donne. Ogni tre giorni avviene un ‘femminicidio’, un neologismo nato per dire basta ad ogni forma di discriminazione e violenza posta in essere contro la donna “in quanto donna“. Perchè le donne non debbano più pagare con la vita la scelta di essere sè stesse, e non quello che i loro partner, gli uomini o la società vorrebbero che fossero. Questi ‘femminicidi’ vengono perpetrati da parte di uomini colti da raptus da gelosia, abbandono, follia, dipendenza, violenza, troppa responsabilità, che crollano e ammazzano brutalmente la donna a coltellate, a botte o la freddano con una pistola e con lei, spesso, anche i propri figli. Uomini sempre più fragili e disorientati che non reggono emotivamente situazioni di crisi, sia essa economica o relazionale, di cambiamento di partner da parte della propria compagna, di abbandono e trovano dentro di sé solo una rabbia violenta, e come unica soluzione, quella di uccidere senza pietà. A volte finiscono con l’uccidere anche se stessi. Disperazione pura, gesti estremi che non sono più solo generati da uomini ’folli’. Spesso a compierli sono persone normali, definite ‘tranquille’ ed ‘equilibrate’. Altre volte la violenza nasce e cresce negli ambiti familiari fino al gesto estremo, che esplode al culmine di anni di soprusi, violenze fisiche e psicologiche, stalking. La violenza sulle donne è un fenomeno sempre più diffuso e attuale, ma molti casi non sono neanche denunciati. E il tema non sembra essere di grande attualità sui media, che affrontano il problema solo ad omicidio avvenuto, rilevando il fatto di cronaca nera. E anche gli uomini che si dissociano da tali comportamenti, fanno poco o nulla per sostenere le donne in questa lotta per la propria tutela morale e incolumità fisica.
Il problema resta esclusivamente delle donne, ed è serio. I fondi destinati ai centri Antiviolenza sono stati tagliati, per poi essere ritirati fuori in extremis, dal Ministro Carfagna prima della caduta del governo Berlusconi. Molti centri hanno chiuso, altri sopravvivono grazie a donazioni private. L’importanza di questi centri antiviolenza è fondamentale. E’ grazie a loro, non alle Questure che non hanno dati ufficiali, che conosciamo il reale numero delle violenze e degli omicidi che avvengono ogni anno in Italia: solo nel 2010, per esempio, hanno perso la vita 127 donne, di cui 114 sono state uccise da membri della famiglia, 68 erano partner, mentre 29 ex partner. Da questi centri sappiamo anche che la maggior parte di questi omicidi avvengono in casa, non in strada. Molti casi di violenza domestica non arrivano alla morte fisica della donna, ma sono ancora peggiori, perché la devastano interiormente, fino a spegnerla. Che, a volte, è peggio di morire.
Quello del nostro paese è principalmente un problema culturale dei rapporti uomo-donna.  Ciò che resta è una cultura, cristallizzata nel tempo, di rapporti fra i sessi fondata su legami di subalternità dell’universo femminile nei confronti di quello maschile, di cui la violenza è solo l’espressione estrema, più bestiale.
Gli uomini hanno costruito nei secoli un legame di dipendenza dalle donne molto forte. Sono in stretto contatto con il corpo femminile fin da piccolissimi, sviluppando in seguito negli anni un legame che si forma nella figura della donna-madre. Che poi evolve nel rapporto donna-compagna. Questa evoluzione dovrebbe essere accompagnata da un reciproco rispetto delle individualità, senza dipendenze. La donna però è cambiata, c’è una maggiore libertà da parte sua, di scegliere, rifiutare, di non accettare passivamente l’ingerenza o la sopraffazione dell’uomo, tanto meno di stabilire dipendenza. La nuova consapevolezza femminile rende le donne più indipendenti, mentre la dipendenza degli uomini dalle donne, resta. In un nuovo contesto in cui l’uomo non riesce più a comprendere i nuovi modelli femminili, adeguandovisi, ecco che scatta la violenza, a vari livelli, insita nel nostro retaggio culturale, così radicato da secoli di cultura profondamente maschilista.  A volte resta cristallizzata nella violenza verbale; altre volte accade che degeneri in fisica o psicologica. Poi c’è il gesto estremo.
Si dovrebbe dibattere di più su quest’argomento così importante. Non è da paese civile ed evoluto avere le cronache dei giornali piene di omicidi di donne, come l’ultimo, perpetrato dal camionista 34enne Mario Albanese che ha ucciso l’ex compagna, il nuovo fidanzato e sua figlia, per gelosia. C’è ancora molto da fare, temo, per quanto riguarda l’emancipazione della donna, intesa nella sua forma più elementare, quella cioè del rispetto della sua persona, delle sue scelte. Anche quella di non amare più, senza per questo essere uccisa, dallo stesso uomo che diceva di amarla.

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