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Natura e sociologia: incontro con Franco Ferrarotti

di Mariano Colla
Nell’ultimo festival della filosofia, tenutosi la scorsa estate a Modena, il tema era la “Natura”.
La natura, a lunga trascurata, riguadagnava la ribalta e diventava oggetto di riflessione e d’azione anche per i grandi pensatori. Una natura non più solo oggetto di sfruttamento, ma in grado di soggettivizzarsi nel recupero di un rapporto equilibrato con l’uomo.
In quell’occasione sociologi e filosofi hanno evidenziato l’urgenza di una coscienza umana in grado di creare un nuovo rapporto con l’ambiente, non più basato sul puro utilitarismo.
Abbiamo avuto recentemente la possibilità di parlarne con Franco Ferrarotti, professore emerito di sociologia all’università di Roma “La Sapienza”, noto studioso di fama internazionale e autore di un’ampia produzione di libri scientifici.
Il prof. Ferrarotti, nel suo ultimo libro “Atman, il respiro del bosco” (edizioni Empiria), identifica la natura come una grande madre, sempre pronta ad accoglierci in una dimensione simbiotica, dove ognuno di noi diventa un figliol prodigo che, dopo il male procurato, ritorna agli affetti primordiali.
Professore, nella sua lunga attività di sociologo si è confrontato con le esigenze di una umanità, prima in rapida crescita, animata da entusiasmi quasi utopici e con orizzonti illimitati e poi, progressivamente, preda di insicurezze, paure e instabilità.
In un mondo stremato da una lunga corsa stimolata da obiettivi economici e di benessere, che ha mescolato fatti reali a utopie, la domanda che sorge spontanea è se si sta effettivamente delineando un nuovo rapporto uomo–natura tale da riequilibrare una relazione alterata dagli eccessi utilitaristici e di sfruttamento naturale, tipici della società moderna.
Parlare di natura aveva senso nel medio evo quando essa aveva un forte valore simbolico, ma oggi la natura è ridotta a processo materiale. Ci sarà di nuovo la natura quando lasceremo incolti certi terreni, quando usciremo dal meccanicismo del PIL, dalla proprietà privata fine a se stessa, dall’uso dei concimi chimici. La natura ritornerà quando ce la meriteremo, non quando il respiro del bosco è l’aria condizionata o quando essa è in disgregazione, preda di uno sfruttamento dissennato. Noi siamo natura, gli alberi sono nostri fratellastri se consideriamo il curioso parallelismo tra la circolazione del sangue e il sistema linfatico nelle piante. L’idea invece della natura che si riduce alla settimana bianca è pura ipocrisia. La natura è ridistribuzione delle derrate alimentare e di risorse tra un mondo ricco e un mondo che ancora muore di fame. Anche nel linguaggio abbiamo perso contatto con la natura. Chi usa più oggi l’espressione “sartiare i ruscelli”? Chi sono oggi gli specialisti della natura? Certo non gli agronomi. Filosofia e sociologia non sembrano più capire la distinzione tra il mondo dell’umano e il mondo della tecnica, in particolare sembra che la dimensione dell’umano si sia eclissata. Mi sembra che parlare di natura riguardi un qualche cosa che ha fatto il suo tempo. Forse la tecnica sta dando origine a un nuovo tipo di uomo. Quale? Un antropoide ? Chissà!
Frammentazione e specializzazione hanno, come dice lei, caratterizzato il moderno progredire delle discipline del pensiero, non ultime la filosofia e la sociologia. In tale prospettiva, si può ancora intravedere un denominatore comune in grado di dare sicurezza? Può il rapporto con la natura agevolare tale risposta? E’ ancora concepibile una ricerca di valori universali?
E’ tipico dei filosofi occuparsi di qualche cosa che non c’è più, tuttavia nella involontarietà del pensiero è forse identificabile questa ambizione universalistica. Una delle tendenze che purtroppo caratterizza le scienze sociali quali storia, filosofia sociologia, psicologia, etc., è una precisione, una visione del particolare che va a tutto discapito di una visione del tutto, dell’insieme, se vuole, dell’universale. Abbiamo tuttora da imparare dalla filosofia classica. Max Weber è stato forse uno degli ultimi grandi sociologi universali. Io qui non intendo negare la scienza specialistica, però sarebbe il caso che qualcuno, forse i filosofi, ragionassero sulle ricadute generali dovute a questo modo di procedere. Nella specializzazione perdiamo la nostra versatilità.
Certamente va detto che gli egoismi e le ambizioni individuali del mondo scientifico, favorite da presunti modelli di sviluppo, non favoriscono la riscoperta di valori comuni, o dei cosiddetti valori universali. L’etica politica e le ricadute economiche e sociali delle ricerche scientifiche vanno ponderate con più attenzione, per evitare i disastri che le applicazioni tecniche di tanta scienza hanno provocato.
Se è vero che l’uomo è l’unico abitante del pianeta che distrugge l’ambiente in cui vive, che risposta o prospettiva possono dare filosofia o sociologia a questo fatto, apparentemente contradditorio?
Quest’affermazione forse vale per gran parte dell’umanità, ma non per tutti. Prendiamo per esempio in esame gli indios dell’Amazzonia che ho avuto la fortuna di poter vedere da vicino, a soli 20 chilometri da Manaus. Nello splendido concerto dodecafonico della selva brasiliana essi vivono in perfetto equilibrio con la natura. Vi è un valore d’uso che non sopprime la natura a vantaggio dell’essere umano e viceversa. La natura è vissuta e non sfruttata, è assecondata nelle sue armoniche manifestazioni. Non vi è asservimento della natura. Noi purtroppo la mettiamo in pericolo o, peggio, la sopprimiamo perché la sfruttiamo intensamente. Io ho scritto a un ministro proponendogli di dare dei premi a chi lascia incoltivati dei terreni. Mi rispose una segretaria quasi insultandomi, perché questa è la mentalità d’oggi che porta allo sfruttamento, che brucia tutti i margini. Tutto è partito dall’occidente con l’enclosure act, la recinzione dei pascoli comuni che in Inghilterra è stata favorita per consentire all’aristocrazia di fare la caccia alla volpe, con grave nocumento di pastori e contadini. E’ la vittoria del capitale, onnivoro e proteiforme, checché dicano tanti economisti dell’ultima ora. Quando Scipione l’Africano piangeva sulle rovine di Cartagine, lo faceva perché si immaginava il destino di Roma, aveva il senso del limite. Il capitalismo tale limite non ce l’ha, poiché è frutto di un pragmatismo in base al quale ciò che funziona è vero. Il club dei chief executive officers delle multinazionali ha più potere degli stati sovrani e gestisce la globalizzazione a suo piacimento, compreso l’impiego insensato delle risorse naturali.
Abbiamo una società sempre più legata all’emotività, a quello che ognuno vuole in quel momento, senza un progetto di vita che invece esige il ragionamento. La ragione sta abbandonando l’individuo. Diceva Tacito, in piena crisi dell’impero: “le porte dei templi si erano spalancate e una voce cavernosa diceva: gli dei se ne vanno”. Bisogna ritornare a scrivere a mano. Nel momento in cui uso una cosa per servirmene in realtà sono asservito.
In un quadro apparentemente cosi fosco che cosa ci propone, prof. Ferrarotti?
La ragione ha abbandonato l’individuo ed è diventata una caratteristica strutturale impersonale dell’istituzione e noi ci stiamo muovendo verso una società totalmente amministrata, dove prevarranno lo spirito politecnico e i valori puramente strumentali, come se fossero i soli valori possibili e quindi i valori finali.
La verità vera la possono dire solo i piccoli gruppi e non il sistema, che funziona secondo principi utilitaristici. Auspico che un nuovo movimento meccanoclasta nasca e, piano piano, si sviluppi. La tendenza al consumo non è un fatto morale, ma è legata al sistema, che senza consumo non sopravvivrebbe. Si può uscire da tale situazione solo con un forte scatto della immaginazione, della involontarietà del pensiero, componenti indispensabili per creare nuovi paradigmi sociali ed economici. Tuttavia i processi sociali sono bradisismici e richiedono molto tempo per realizzarsi. E in tale lasso di tempo una istituzione è necessaria perche l’istituzione scandisce la vita, lenisce l’angoscia e definisce un costume. Abbiamo bisogno di cambiamenti ma anche di stabilità.

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