Segnala un evento
HomeIn primo pianoKurt, una siringa e un fucile a Seattle

Kurt, una siringa e un fucile a Seattle

di Francesco Corbisiero
Kurt, una siringa e un fucile per andarsene via, mentre la tv trasmetteva il video di ‘Nightswimming’, pezzo del gruppo di uno dei sui cantanti più ammirati: Micheal Stipe. E un asciugamano accanto al cadavere, perché pulissero tutto. Tutto questo 18 anni fa, il 5 aprile del 1994.
Nell’incipit di una sua famosa canzone, Guccini diceva: ‘Vedi cara, è difficile spiegare, è difficile parlare dei fantasmi di una mente’. E per quel bellissimo giovane con lunghi capelli biondi è stato sicuramente così. Prima un infanzia difficilissima, segnata dal divorzio dei genitori, fino ad arrivare a quella notte (cantata in ‘Something in the way’) passata sotto un ponte ad Abardeen, periferia di Seattle, il vagabondaggio, per raggiungere giovanissimo e solo alla fine una celebrità fatta di lustrini e morbose attenzioni giornalistiche, sempre offerta e puntualmente disdegnata. Cobain è diventato un idolo suo malgrado, un guru che non voleva essere, colui che ha narrato i tormenti, la rabbia e le frustrazioni profonde di una generazione, quella nata dagli ultimi anni ‘70 fino ai primi anni ’90, che, se avesse trovato il coraggio, avrebbe fatto saltare in aria il mondo senza la sicurezza di voler rimetterlo in piedi diverso o migliore. Così, per puro nichilismo. Ma la voglia di rappresentare le domande senza speranza di così tanti giovani lui non ce l’aveva, nonostante Mtv, nonostante le folle oceaniche di fan di tutto il mondo. Aveva in sé piuttosto un disperato desiderio d’amore e di felicità, mal riposto in persone false che gli giravano intorno per interesse. E riusciva a colmare quel vuoto che pure percepiva solo con l’eroina, finendo svariate volte in overdose, anche durante la sua ultima tappa romana, due mesi prima del fattaccio.
Cobain, anzi no, Kurt era così: diverso, diametralmente opposto all’immagine vincente di yuppie incravattato degli Stati Uniti post-sbronza da edonismo reaganiano. Era l’ennesima prova per cui anche un sistema vincente come quello statunitense può produrre intensa infelicità, l’indizio secondo cui l’ottimismo di una nazione non necessariamente incrementa la speranza dei suoi figli.
I dischi dei Nirvana sono solo 3, ma sono così densi, così pregni di storie e rappresentazioni forti (gli amori finiti, la vita selvaggia, gli stupri, il sesso), da coagulare in sintesi tutta la disperazione di una generazione che sentiva di non avere più valori né futuro. ‘Bleach’ del 1989, ‘In utero’ del 1993 e soprattutto ‘Nevermind’ del 1991. Anche la musica cambiò registro, nessuno poteva rimanere indifferente a quelle parole gridate con tutto il fiato, accompagnate da suoni così forti, diretti, cattivi abbastanza da prenderti il cuore e fracassartici sopra una chitarra per schiuderlo. ‘Smells like teen spirits’ scalzò dalla classifica in breve tempo persino l’idolo indiscusso di quel periodo, Micheal Jackson. Ma tutto finì lì, ingabbiato dalle logiche del mercato discografico, dai profitti di chi voleva trasformare un giovane ragazzo della provincia americana in una rockstar, nella creazione ad arte di un genere, il grunge, che altro non era, parole del leader dei Nirvana, che un punk degli anni Novanta riveduto e corretto, capace però di resuscitare il rock da un decennio di stato comatoso in balìa dei suoni sintetico-elettronici da disco-dance.
Peccato, peccato davvero per loro. Perché il suicidio di Cobain rese luce e verità a quello che lui era e che voleva continuare ad essere: un giovane uomo tormentato e fragile, un reietto privo della tipica e stucchevole auto-commiserazione che gli ultimi provano per se stessi, una personalità caotica e confusa, capace di slanci di profonda tenerezza forse soltanto con sua figlia, Frances, nata dal rapporto con Courtney Love. E, aggiungerei, uno tra i pochissimi artisti capace di racchiudere nelle canzoni il condensato della sua anima. Non poteva essere un omologato e tutta questa vicenda non poteva che finire nella maniera in cui si è conclusa. Non dite, per l’amor di Dio, ‘se solo fosse vivo oggi’, perché sputerebbe in faccia ai ragazzi con l’iPhone, al conformismo dell’anti-conformismo, alla classifica musicale, alla politica. E continuerebbe a essere, sempre senza desiderarlo, un meraviglioso ribelle.
Ma il modo migliore per onorarlo quest’oggi, nella triste ricorrenza del suo suicidio, non sono queste mie parole, non possono esserlo. L’unico modo giusto per non dimenticarlo è accendere l’impianto stereo e far partire nel mangiadischi, se ce li avete, uno dopo l’altro tutti i dischi dei Nirvana. Col volume al massimo, s’intende, senza curarsi delle proteste dei vicini. Perché si ricordino, loro, che anche nel condominio più tranquillo, può esserci una scheggia impazzita che rompe la routine della vita quotidiana, una mina vagante. Il caos. Proprio come Kurt.

SCRIVI UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento!
Inserisci il tuo nome

- Advertisment -

più popolari