Mamma mia… che fatica! Non so di quanto tempo avrei bisogno per scrivere di tutte le cose che ogni giorno mi fanno girare le bbballe in un Paese che trasuda narcisi ipocriti e frustrati d’ogni tipo, in ogni habitat. Quarantenni single – ambo i sessi – senza figli e con appena una carota nel frigo a dettare regole e valori sulla famiglia che, a detta loro, non hanno perché non se la possono permettere. Tutti sapientini, tutti innovatori, tutti politici, tutti creativi, tutti talenti, tutti giuristi, tutti filosofi… Sociologi del comportamento alla luce del giorno e deturpatori di umana dignità nel cuore della notte. Che mondo storto! Sanno tutto e non fanno niente, sanno niente e fanno tutto.
Ci sentiamo migliori tra i migliori e peggiori tra i peggiori nel mondo. Quando si tratta di economia vogliamo fare concorrenza agli Stati Uniti d’America e quando si tratta di politica e lavoro “stiamo come la Grecia”. Parliamo tanto di fuga di cervelli e, limitandoci a notare la fuga, perdiamo tempo a parlar male dell’invasione dei rumeni che “ci rubano il lavoro”… quello che noi mediamente non siamo disposti a fare. Mentre qui, padri dinasti di una generazione votata alle droghe sintetiche, al soldo facile e alla fama del tronista, scrivono lettere aperte ai propri eredi per dirgli “commossi” di andarsene da un Paese che non li ama c’è chi si domanda se forse il senso di tanta tristezza non vada scritto al contrario: “Figlio mio, tu non ami abbastanza il tuo Paese”.
Se è vero che l’amore è un atto, e non un sentimento, è vero anche che come tale va esternato nei peggiori momenti della nostra vita e non quando va tutto bene. Quando va tutto bene è facile. Lavori, guadagni, sei felice, ti sposi, cresci figli, compri roba (per lo più inutile), ti togli soddisfazioni, vai in vacanza senza badare a spese… insomma, per parlare male di qualcosa hai bisogno di qualcuno: il vicino di casa, la maestra di tua figlia, il negozio affianco, un collega, un amico che non ti va più a genio… qualcosa. Va tutto bene, eppure non stai lì ogni momento della tua solarissima giornata a dire: “Aaah, come si sta bene qui. Aaah, che bravi governanti che abbiamo. Aaah che bel lavoro che faccio!”. Va tutto bene, ti basta. A nutrire la bestia dell’accidia ci pensa il nuovo amministratore di condominio o la mamma di un amichetto di tuo figlio, però… (!) non sia mai che arrivi un terremoto, una nevicata, un’alluvione, un problema o una cosa che gira come tu non te l’aspetti che subito: “si poteva fare di più”…
Ecco, io credo che l’Italia sia molto così: una specie di tabellone di cartone da gioco dell’oca aperto sul tavolo. Ti aspetti il dado e l’oca rossa con la certezza di 63 caselle sulle quali avanzare sapendo che quando arrivi se sei primo puoi solo vincere, perché nessun gioco premia l’ultimo arrivato, a parte il Padre Eterno. Man mano che avanzi capiti su qualche casella che ti dice di tornare indietro o di saltare un turno e tu sei lì, a fare l’oca rossa quando ti tocca di turno e ad aspettare dondolandoti sulla sedia e guardando i tiri degli altri, le altre oche che avanzano e il tabellone di cartone… che sta lì, con quella piega al centro a darti l’ulteriore certezza di una partita che, comunque vada, finirà. E potrai fare altro allora: cucinare, riposarti, uscire… quello che vorrai perché la tua autonomia e la tua vita dipendono solo da te… Tu sei “il mostro” artefice e fautore di te stesso, no? Tu sei il creativo, sapientino, genietto, luminare, politico e giurista che sul proprio stato di Facebook posta citazioni altrui o invia cv ad aziende che non conosce in Ccn scrivendo nell’oggetto del messaggio… “Leggete il mio curriculum e capirete chi sono“. Beh, sai che nuova c’è? Che cammini (a dadi) sul tabellone del gioco dell’oca, quello sul quale qualcuno al posto tuo ha già deciso come funziona, che regole ha, quante caselle sono, qual è il numero massimo di giocatori, di che colore sono le oche e tutto il resto. Il dado è a 6 facce, ma il numero è sempre quello e tu sei fermo sul posto.
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Ora, io credo, il problema non è impegnarsi per forza in politica per dare il proprio contributo ad un Paese che non ti ama. E’ un Paese, poverino, non può farlo, non può amarti lui… Paese. Lo devi amare tu che, viceversa, tra i due sei l’unico che può fare qualcosa, prima che per sé forse per gli altri. Il tuo Paese sono “gli altri”. I tuoi vicini di casa, i tuoi colleghi di lavori, i tuoi amici, la tua famiglia. Quello è il Paese che devi moralmente servire. Non si scappa, non ne esiste un’altra di “entità Paese”. E’ quella li. Quando sento dire da molti giovani (per non parlare dei miei coetanei) “questo Paese non mi da nulla” mi si apre una voragine nel cuore perché non solo molto spesso non comprendono (e nessuno glielo insegna) che è normale che sia così, ma non fanno neanche nulla per superare la visione qualunquista del detto comune. Si accontentano. Scaricano il peso delle proprie inefficienze su una “suprema entità Paese” che li governa (loro che si ritengono fautori di se stessi cadendo in una contraddizione incontenibile) e si lasciano andare agli eventi del gioco. Tirano il dado e contano caselle… Basta. Ti dice bene se quando perdono non ti accusano di aver vinto barando, infatti generalmente chi se la passa meglio, a detta dei più, “è sicuramente un disonesto!”…
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Se davvero ami il tuo Paese, amalo adesso. Questo è il tuo momento: è adesso che ha bisogno di te. Se non lo ami non importa: l’Italia sa già che la dimenticherai quando tornerà il sole ad illuminare anche le caselle sulle quali, nonostante tutto, per tutto questo tempo avrai continuato a camminare pure tu, magari a spese di chi avrà vinto la partita.