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Terre dell'Uomo e le tracce pasoliniane del Discorso di Lecce

Di David Spiegelman
Non è un caso se la figura, ancor più dell’opera, di Pier Paolo Pasolini continua a ispirare gli aspetti meno scontati e pavloviani del dibattito culturale. Se alcune delle sue risposte possono sembrare al crivello dell’oggi datate e irriflessive, opacizzate da una forma di schematismo ideologico derivata dal contrapporsi al luogocomunismo del suo tempo, le domande – perché è compito dell’uomo di pensiero porre domande – restano angolari.
Il tema della ricchezza culturale sottesa alla varietà linguistica che caratterizza l’Italia, infatti, sarebbe stato troppo complesso e per essere espropriato, come da tempo accade, dalla politica di basso lignaggio: invece la forza politica della lingua nazionale, imposta – con metodo impropriamente didattico – dai moduli espressivi della prima Rai che aveva svolto, tra gli sceneggiati letterari e i programmi di divulgazione grammaticale e scientifica, funzione di supplenza nei confronti di un sistema scolastico destinato a decomporsi, se aveva posto rimedio alle contraddizioni di un’unificazione mai interamente accettata e quindi lontana dal compiersi, aveva messo fuori gioco lo scenario degli idiomi ad articolazione territoriale, degradati a “dialetti” e ridotti a forma espressiva subalterna.
Quel che disse Pasolini a Lecce, a proposito del valore delle culture locali minacciato dall’omologazione propria della società capitalistica, ha uno straordinario valore reazionario, nel senso inteso e frainteso da Sanguineti che del poeta e regista sarebbe stato implacabile avversario ideologico: l’idea di modernità e di progresso erano estranee all’universo culturale di Pasolini, nostalgico di una società fondata su valori arcadici e preindustriali. In tal senso Pasolini era acutamente reazionario, rispetto al preconizzato degrado che il suo angelo nero non gli avrebbe consentito di toccare con mano.
Nel suo Friuli, abbandonato in avvio del lungo esilio che lo avrebbe portato lontano da tutto e da se stesso, fino al buio di una spiaggia deserta corsa dagli spettri, la rassegna “Terre dell’Uomo” – in corso fino al 9 settembre nelle province di Udine e Pordenone – rende oggi omaggio a Pasolini, proprio a Casarsa della Delizia: il glottologo Alberto Sobrero, la presidente e la direttrice del Centro Pasolini Piera Rizzolati e Angela Felice riprendono il “Discorso di Lecce”, un’appassionata requisitoria contro la violenza uniformante della neolingua propria della vita nelle fabbriche e negli uffici.
Il poeta vedeva nella banalizzante colata di cemento del burolinguaggio, che Manganelli e Volponi e Bianciardi e perfino – a modo suo – Villaggio avrebbero scarnificato nei toni del grottesco, l’imminente soffocamento della varietà etnoantropologica di un’Italia difforme e compartecipe. La drammaturgia eduardiana, i sonetti del Baffo, le poesie di Firpo o Porta o Belli o Marin o Pierro, il canzoniere della Balistreri: s’approssima, a decenni ormai dal lugubre sipario sulla povera vita di Pasolini, la “morte delle lucciole”, assassinate da un depauperamento che corre su due binari concordi, con la spoliazione della stessa lingua italiana inferta a colpi di linguaggi elettronici sempre più semplificati – la tv è colpevole, ma non è la sola, nella foresta di silicio che promette facilitazione e cancella l’impervio – senza che le lingue territoriali sappiano ristrutturarsi a propria autotutela, incamminandosi anzi anch’esse all’estinzione per il rarefarsi dei parlanti, non meno che per la scarsa considerazione a livello di istituzioni culturali accademiche e governative.
L’orazione a difesa delle “lingue e culture subalterne”, come le ombre candite sui muri di Nagasaki e l’orologio della stazione di Bologna, ha avuto dal destino un ruolo testimoniale e testamentario in un solo momento. Pasolini infatti pronunciò quelle parole a Lecce il 21 ottobre 1975, neppure due settimane prima di prendere l’ascensore per il patibolo. E di salvarsi, forse, attraverso quello che alcuni esegeti leggono come una forma perturbata di sacrificio rituale, di espiazione di colpe altrui assunte su di sé come un cristiano delle origini quale si riteneva, da un tempo che lo avrebbe mortificato, secondo le scansioni di una opprimente sopravvivenza alle illusioni mai davvero coltivate. Il poeta non sapeva che sarebbe diventato musica, di lì a pochi anni, in una composizione di Michel Petrucciani, così come si sarebbe addirittura visto dedicare un album da un altro pianista, più ostico e ascetico del piccolo grande francese con l’anima venuta da Napoli, come Stefano Battaglia. Moretti ha scelto Jarrett, e la sua improvvisazione – anch’essa del 1975! – sulla controfigura scordata di un recalcitrante Bösendorfer, per avvicinarsi a un sacrario spazzato dal vento.
La musica non ha parole ed è forse questo il modo, oggi, di ricordare a quasi trentacinque anni dalla morte un uomo capace di parlare fuori tempo, in solitudine, lontano dalle due chiese contrapposte, la vaticana e la togliattiana, che allora regnavano su un’Italia destinata a restare, appunto, forse non molto più di una parola.
Per maggiori info:
 www.comune.casarsadelladelizia.pn.it/Notizia.4513.0.html?&no_cache=1&tx_ttnews%5BbackPid%5D=4510&tx_ttnews%5Btt_news%5D=1458&cHash=8037944b4f 

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