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Fede e dignità

di Mariano Colla
Quando i rigurgiti della secolarizzazione sembrano appannare i valori e i principi di una religione si tende a recuperarne immagine e viatico ricorrendo ai così detti religiosi di frontiera, ossia a coloro che, lontani dalle gerarchie e dal potere, esercitano, nel silenzio, funzioni di carità, di aiuto sociale e psicologico, di umile ma fattiva presenza in luoghi intrisi di sofferenza, di povertà, di conflitti sociali e politici, laddove una parola di conforto o un centro di aggregazione rappresentano la differenza tra l’irreversibile abbandono e la speranza.
Laddove marcisce l’umanità e l’uomo sente il peso della solitudine esistenziale, la religione, a volte, offre una luce, ma affinché la luce non sia frutto di un proselitismo aggressivo e ambiguo, tale da reprimere l’identità e la dimensione individuale, è importante che sia una luce discreta, non invasiva e dogmatica.
Spiritualità come conforto, che nasce dal dialogo, dalla reciproca confidenza e fiducia e non dalla mera applicazione della dottrina e delle regole del magistero.
Dinanzi alle difficoltà della vita, alle asperità di un mondo che si esprime in tutta la sua durezza, all’assenza di amore e all’invadente presenza di violenza e sofferenza, i religiosi di frontiera sanno maggiormente cogliere la dimensione umana, percependo nel dialogo, nell’apertura, nell’ascolto e nella comprensione una possibile via per rendere più fruibile e accettabile una proposta spirituale.
La Chiesa cattolica, nella sua imponente e capillare struttura organizzativa, ha da tempo sperimentato tale tendenza e credo non sfugga, a fedeli e non, la linea di demarcazione sempre più evidente che si è venuta a creare, in materia di sensibilità spirituale e materiale alle istanze umane, tra quella parte delle gerarchie particolarmente sensibili alle tentazioni del secolarismo o a un rigido dogmatismo e le estreme propaggini dell’organismo ecclesiastico operante alle frontiere del mondo.
Nel lento progredire di ombre che possono offuscare l’impegnativo ruolo della Chiesa, in difficoltà nel gestire le istanze dell’uomo contemporaneo, emergono, tuttavia, figure che, per prestigio, sapienza, saggezza e sensibilità spirituale, oltre che umana, sanno dare stimoli e delineare orizzonti su cui la Chiesa dovrebbe riflettere e, soprattutto, ascoltare. Sono figure inserite ai vertici delle gerarchie che sono sfuggite alle insidie del dogmatismo e del secolarismo.
Il cardinale Carlo Maria Martini rientra in questo ristretto novero e l’intensa partecipazione popolare ai suoi funerali, oltre che dei fedeli, anche di non credenti, agnostici e atei, è un segno evidente di come il cardinale abbia saputo stabilire un legame non solo con i praticanti ma con la comunità milanese nel suo complesso, dimostrando che un rapporto vescovo-cittadini, si istituisce non solo con la fede ma con il dialogo e l’apertura, caratteristiche evidenti nella figura del cardinale.
E in questa sua veste di uomo, oltre che di pastore, è particolarmente rilevante l’intensità del messaggio che Carlo Maria Martini ha lanciato, pochi giorni prima di morire, in un’intervista al Corriere della Sera.
Ne riporto qui alcuni stralci che mi sembrano estremamente rilevanti.
“La Chiesa è stanca e il benessere acceca gli uomini. La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l’apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi.
La Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal Papa e dai vescovi.
Gli scandali della pedofilia ci spingono a intraprendere un cammino di conversione.
La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio?”.
La gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale. L’atteggiamento che teniamo verso le famiglie allargate determinerà l’avvicinamento alla Chiesa della generazione dei figli? Se i genitori si sentono esterni alla Chiesa o non ne sentono il sostegno, la Chiesa perderà la generazione futura”.
In conclusione Martini si è chiesto: la domanda se i divorziati possano fare la Comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?
In questo messaggio accorato vi è la consapevolezza di un mondo sempre più complesso, dalle molteplici istanze, che non è più disposto a muoversi verso paradigmi spirituali che non lo accolgono ma, bensì, lo giudicano in base a una morale costruita su meccanismi obiettivi-dogmatici inflessibili e sordi alle esigenze umane.
La sua fede era salda ma si confrontava continuamente con i dubbi, dubbi che alimentavano un continuo processo di riconquista della fede e, forse, una rilettura meno rigida della dogmatica a fronte dei veri valori del messaggio cristiano.
Nel suo comportamento ritroviamo tale flessibilità.
In parziale disaccordo con pronunciamenti ecclesiali degli ultimi tempi, il cardinal Martini ha infatti rinunciato a quell’insieme di pratiche mediche che i mass-media ci hanno insegnato a classificare come accanimento terapeutico.
Ha mantenuto vivo il dialogo tra credenti e non credenti, ha saputo ascoltare senza giudicare e, in tal senso, non ha operato distinzioni tra questioni di fede o non fede, quanto tra il pensare e non pensare, quasi ad auspicare una fede non solo come credenza ma anche come fiducia.
Sull’aborto sosteneva che andava rispettata ogni persona che, dopo riflessione e sofferenza, seguiva la propria coscienza anche se decideva per qualche cosa che lui non si sentiva di approvare.
Per il caso Welby ha detto: non si vuole procurare la morte, si accetta di non poterla impedire.
Considerava tutte le questioni che riguardavano la nascita e il fine vita come zone grigie dove non è subito evidente quale sia il vero bene e aggiungeva che la prosecuzione della vita umana fisica non è di per sé il principio primo e assoluto; sopra di esso sta quello della dignità umana.
Invitava la Chiesa a non emarginare i divorziati, a non opporsi alle unioni civili anche tra omosessuali, a riflettere sul celibato dei preti e sul sacerdozio precluso alle donne, insomma a confrontarsi con l’evoluzione della società umana.
Criticava aspramente il retaggio del potere temporale della Chiesa.
In una lettera di presentazione del libro di Vito Mancuso “L’anima e il suo destino”, libro che ha destato accanite critiche da parte delle gerarchie e dei cattolici ortodossi, ha scritto: “Mi auguro che anche coloro che non saranno d’accordo con parecchie idee del tuo libro comprendano queste cose e ti ascoltino con attenzione”.
E’ stata una figura forse scomoda ma tuttavia troppo autorevole per richiederne il silenzio e troppo moderna per essere ascoltata dalle gerarchie vaticane.
La sua pastoralità non sembrava esercitarsi nella conversione, in un proselitismo dettato da un verità superiore, inaccessibile e indiscutibile, quanto da un’azione continua rivolta al rapporto con gli altri, azione caratterizzata da umiltà, pur nell’estrema saggezza, cultura e prestigio del ruolo che ricopriva.
E proprio questa umiltà, unita a una devastante malattia, l’hanno allontanato, in silenzio, dalla diocesi milanese, per recarsi a Gerusalemme, luogo di preghiera, meditazione e studio dove, forse, ha sofferto per il progressivo allontanarsi di Santa Madre Chiesa da quel modello originario che meglio rappresentava i fondamenti del Vangelo e che il cardinal Martini, con un ultimo grido, ha cercato di rievocare prima di morire.

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