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Offlaga Disco Pax, elettronica a pugno chiuso

testo di Francesco Corbisiero –  foto di Serena De Angelis
I lettori affezionati lo sapranno già: io non sono solo uno che scrive di musica, sono pure uno studente di Scienze Politiche. In questo periodo per esempio mi trovo a frequentare un corso in cui si propone ai laureandi di analizzare i dati dei partiti politici nelle varie elezioni dal dopoguerra ad oggi. E se c’è una cosa che mi colpisce sempre – e dico sempre – è quel triangolo scaleno che separa il Centro dal Nord Italia ogni volta colorato di rosso.
Ma io non sono solo uno studente di Scienze Politiche, sono anche uno che scrive di musica. E l’avrete capito, insomma, che il paragrafo precedente è solo un artificio retorico anche piuttosto blando per introdurre un gruppo che proviene proprio dalla rossa Emilia-Romagna e che una certa politica ( del passato ) la usa nei brani che scrive come pietra angolare per discutere del presente in maniera critica. Parliamo degli Offlaga Disco Pax, che ieri erano al Planet Roma ( famo a capisse: l’ex Alpheus ) sul palco di una manifestazione molto particolare, ossia la seconda serata della tre giorni dei MArte Awards,  premio per gli artisti indipendenti.
Gli Offlaga Disco Pax. La musica a servizio delle parole. Speaking words, come i Massimo Volume, ma senza il furore noise rock e l’essenza tormentata e aristocratica di Emidio Clementi. Emiliani e socialisti, come i CCCP-Fedeli alla Linea, ma con tutte le influenze dell’elettronica delle origini ( Suicide e Kraftwerk in testa ). Gli zii austeri dello Stato Sociale ( ma sarebbe più corretto dire che Lodo Guenzi e Co. sono i nipoti cazzari di Max Collini ) insomma, quelli che hanno fatto in tempo a vedere com’era il mondo prima del Muro e un po’ quel mondo lo rimpiangono. Tre album all’attivo: ‘Socialismo tascabile’ ( 2005 ), ‘Bachelite’ ( 2008 ) e l’ultimo, ‘Gioco di Società’ pubblicato proprio un anno addietro. E sì, son talmente incuriosito da loro che mi spingo fino a Testaccio a vederli dal vivo per la prima volta.
Però sbaglio sala. Mi accoglie un ragazzo di carnagione olivastra, con le treccine e i pantaloni larghissimi. ‘Scusate, ma non è qui il concerto degli Offlaga?’.
‘No, da questa parte c’è la serata rap e il concerto di Inoki’.
‘Ah, va bene, arrivederci’.
Mentre mi chiedo dove ho la testa, entro finalmente nell’area dove si terrà il concerto e mi accorgo che nelle varie stanze di quella discoteca che sembra uscita da quelle immagini di divertimento cafone e goderecce degli anni ’70 ci sono gruppi che suonano contemporaneamente. Il primo in cui m’imbatto è terribile, mentre sul palco dove si esibiranno i 3 di Reggio Emilia c’è una band che tra volteggi hard rock e schitarrate uscite da un concerto progressive riesce a tenermi lì, nonostante né l’uno né l’altro genere siano mai entrati nelle mie grazie ( sì, sono stato un ragazzino sui generis: mentre al liceo tutti ascoltavano gli AC/DC o s’entusiasmavano con i Dream Theater, io impazzivo per gli Smiths ). Anche se Andrea Ra col basso ci sa fare. Troppo slapping, ma ci sa fare. E sa pure scrivere testi in rima senza risultare banale o eccessivamente pop, cosa non da tutti. Poi arrivano loro e quello che colpisce è l’assoluta mancanza di qualsiasi presunzione da parte di chi potrebbe permettersi quella che porta con sé l’appellativo di ‘artista’: salgono sul palco e fanno loro stessi il soundcheck. Quando è tutto pronto ci ritornano e si parte.
Apre ‘Palazzo Masdoni’, riflessione del Collini sul suo sogno d’adolescente, quello di abitare nella sede della locale Federazione Provinciale del PCI. Poi, di fila, ‘Respinti all’uscio’, cronaca semicosciente di 3 ragazzini troppo piccoli per andare al concerto dei Police a Reggio nel 1980 che si ritrovarono una città semi-distrutta dagli scontri di chi era arrivato lì, per scoprire solo all’entrata che il luogo dell’evento non riusciva a contenere tutti i partecipanti. E ancora ‘Lungimiranza’, ‘Dove ho messo la Golf?’, ‘Sensibile’ ( brano feroce sui crimini commessi da Francesca Mambro e Giusva Fioravanti ), ‘Parlo da solo’, canzone sul binario morto dei sentimenti e dei risentimenti, ‘Sequoia’, ‘Piccola storia ultras’ sulla passione per la Reggiana, ‘Ventrale’ e le vittorie olimpiche dell’Unione Sovietica, ‘Onomastica’, il ricordo del rapporto controverso con il padre in ‘Venti minuti’ ( il momento più toccante e intimo dell’intero concerto ), ‘Tulipani’. Chiudono con ‘Robiespierre’ ( cavallo di battaglia dei nostri che ripercorre con un elenco tutto ciò che è rimasto nella memoria degli anni dei Van Halen e di Enrico Berlinguer  ) e ‘A pagare e a morire’, mentre il frontman tira fuori una macchinetta fotografica e comincia a scattare foto al pubblico dall’alto della piattaforma, dopo aver ringraziato gli organizzatori e quasi tutta la 42 records, accorsa alla serata per l’occasione, e si concede agli spettatori invitandoli al banchetto del merchandising per firmare le copie dei dischi.
Ciò che impressiona di più ad un concerto degli ODP è la straordinaria bravura e la mostruosa padronanza degli strumenti che posseggono Enrico Fontanelli ( moog, basi e basso ) e Daniele Caretti ( chitarra e synth ), fautori di un sound vivace, elettronico eppure caldo, che accompagna con costanza e senza prepotenza i flussi di coscienza del Collini in un’opera che non è azzardato definire di meta-letteratura. Caldamente consigliato l’ascolto a chi crede che l’Emilia sia solo e soltanto terra di rocker e a chiunque sia in corsa alle primarie del centrosinistra. Non potranno che far bene o quanto meno chiarire le idee.
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