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La cicatrice del mondo nove anni dopo l'11 settembre

Di David Spiegelman
Nove anni dopo, il mondo è sempre quello della pietra e della fionda. L’America ha un presidente nero, in cui gli antipatizzanti in crescente numero scorgono un astuto collaborazionista con il Nemico. Due fratelli si contendono la Gran Bretagna, la Francia se l’è presa l’ex fidanzata di Mick Jagger, un pensatore stanco parla a una piazza vuota da una finestra di San Pietro, il lìder maximo scopre a 84 anni che il comunismo era soltanto un’illusione ottica come il sorriso del Gatto dello Cheshire; eppure l’Unione Sovietica va ricomponendosi non senza fatica, come un puzzle coeso ora non dalla forza di Marte ma da quella di Mercurio. Sullo sfondo c’è il grosso gatto cinese, che gioca con il mondo come se fosse un gomitolo. Tutte le strade portano a Gerusalemme, presidiata da un Minotauro estenuato dall’attesa, ma nessuna la raggiunge.
La fine della storia è durata un decennio risicato, dall’ammainabandiera al Cremlino nella Notte Santa del 1991 al decollo da Boston, alle 8.05 dell’11 settembre 2001, del volo 11 American Airlines per Los Angeles. Da allora il futuro è ricominciato; e non è certo quello di una volta. La storia trascende le vite degli uomini, le scavalca e quasi sempre si svolge altrove. Nell’esistenza di ognuno ci sono momenti cardinali. Tutti, noi italiani almeno, ricordiamo come e dove fossimo il giorno che rapirono Moro, da quale televisore dilagò l’urlo di Tardelli o baluginò lo scatto di Pantani sul Galibier, in quale cinematografo e con chi vedemmo Hannah e le sue sorelle. La prima reazione, nella sera dell’11/9 che laggiù era ancora giorno pieno, fu di prendere un dvd dallo scaffale, uno qualsiasi dei film newyorkesi di Allen, per rivedere quel profilo morto per sempre, oppure spegnere la luce e ascoltare il lamento del clarino, l’antico strumento delle sinagoghe dell’Europa orientale, che alza il sipario sulla Rhapsody in Blue, il vero autoritratto di quella metropoli umiliata e offesa. Era la prima volta, per noi nati e cresciuti nel tardo Novecento nella speranza in un tempo e in un mondo senza mai più guerre, che vedevamo ammazzare una città e non ce ne capacitavamo. Anche sulla copertina di un cd di Richard Galliano, prima traccia Vuelvo al Sur, c’erano quei due grattacieli, fluorescenti per la circolazione arteriosa del gas nobile, gialli contro il cielo notturno.
In ogni tragedia collettiva c’è un retrogusto grottesco, l’esistenza dispensa sadica i suoi contravveleni per non rendersi del tutto intollerabile. C’è chi ricorda, di quel giorno immane, una telefonata concitata a un amico che era appena arrivato a New York, e che non si era ancora liberato delle ultime scaglie di sonno. Viveva a ottocento metri dalle Torri e non si era accorto di nulla, aveva dormito pesante, aveva saputo del primo aeroplano da una persona che stava dall’altra parte dell’Atlantico e molto più in là. Poi, le comunicazioni si sarebbero interrotte per giorni. Al riprendersi, tutto era cambiato e per sempre, per scoprirsi eguale a se stesso, come se nulla fosse successo. La cicatrice di calcestruzzo e tondini sulla punta di Manhattan è ancora lì, un monumento al nulla, a guardare lassù si scorge forse l’olografica memoria di Roland Petit che camminò su un filo da una torre all’altra, primo esorcismo alla morte di un’architettura di vetro nata col babelico peccato di superbia. Ci chiedevamo come sarebbe stato possibile ripartire, individuare un domani: invece la vera pena del dolore è accorgersi che nemmeno il dolore dura, e che quindi nessun dolore ha significato o insegnamento.
Nessuno ha compreso le ragioni di quel fortunale, una demoniaca macchina celibe. Karl-Heinz Stockhausen, poi affannatosi a rettificare, disse «Questa è l’opera d’arte più grande mai esistita». Altri deplorarono, ma poi dicevano che sotto sotto gli americani e anche gli ebrei un po’ se l’erano andata a cercare. Altri ancora aggiunsero, in un crescendo di protocollare delirio paranoico dove la realtà fattuale è solo un bieco ostacolo ai serpenti della mente, che gli ebrei delle Torri erano stati preavvisati. Una donna solitaria lanciò la sua crociata dei fanciulli, oltre l’ultimo respiro. I cocci di quel giorno sono ancora ben lontani dall’essere ricomposti. E quello che un tempo era lo scontro planetario tra il capitalismo e il socialismo, mentre le gru rimuovono i bronzi di Marx ed Engels dai giardini di Alexanderplatz, è regredito a un combattimento nel nome di una prospettiva ultramondana. Nessuno è mai tornato da nessun paradiso, per dire che era tutto vero: eppure a milioni ci credono e stanno accelerando per raggiungere la valle di Giosafat, per bere una dopo l’altra le sette coppe dell’ira divina, a cavallo del missile del dottor Stranamore, il giorno dopo la fine dell’eternità. In un tempo vuoto servono parole antiche: questo mondo è scardinato, maledetto destino essere nati per rimetterlo in sesto.

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