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I ragazzi che fissano le scarpe

di Francesco Corbisiero
Per capire questa storia è necessario cominciare da lontano, dalla fine degli anni ’80, o giù di lì. Un decennio che, contrariamente a quanto si crede, non è entrato nella storia solo per sintetizzatori e pop da classifica: se ci si addentra con più attenzione nei meandri di quei due lustri che per la musica hanno significato tutto (o quasi) si scorge, giusto sul finire, a cavallo dei ’90, un genere che ancora oggi raccoglie proseliti, nonostante se ne sia parlato con gli stessi termini con cui si parla di una meteora veloce e passeggera, ma che comunque ha lasciato una scia ben indimenticata.
Si parla di shoegaze. Che è il fratello minore aggressivo e sparato a velocità supersonica di quel dream-pop di matrice Cocteau Twins, nato proprio in quegli anni. I critici musicali inglesi gli diedero questo nome perché sul palco, chi suonava questo genere, benché avesse sempre la testa china e gli occhi sul suo strumento, appariva come uno che stesse fissandosi le scarpe. Shoe-gazing, appunto. Ha avuto vita breve, ma tra le sue fila ha annoverato (pochi ) profeti formidabili. Come i Ride o, ancora più conosciuti al grande pubblico, i My Bloody Valentine. Ha lasciato ai posteri dischi come ‘Loveless’ ( 1991 ), non propriamente un album ‘qualsiasi’. Sarebbe poi arrivato in Inghilterra il brit-pop di band come Verve, Blur e Stone Roses e negli Stati Uniti il grunge dei Nirvana e dei Pearl Jam a rovinare la festa e spazzarlo via a metà degli anni’90, a farlo diventare un ricordo. E’ stato vittima di coincidenze temporali sfavorevoli, lo shoegaze.
Eppure, se nascono ancora gruppi come i TOY (o, sulla stessa linea direttrice, ma in Italia, gli A Classic Education), vuol dire che qualcuno nei ricordi ci crede o che, quanto meno, ha ancora voglia di mettere in scena un certo tipo di musica in anni spaventosamente simili a quelli e in cui il revival anni ‘80 la fa da padrone ovunque, nella moda, come pure nella musica. Allora perché non provarci a tirar fuori le chitarre, quando tutti intorno giochicchiano con tastiere et similia? Così mi ritrovo sotto il palco del Circolo degli Artisti ieri sera, a sentire con le mie orecchie come suonano e vedere coi miei occhi dove vogliono andare i 5 di Londra. Ad aprire come gruppo spalla, gli Echoes of Silence, ennesimo complesso ad ispirarsi ai Joy Division, ma perfettamente appropriati al tema della serata. Tecnicamente bravi, ma confesso che dopo la terza canzone non ho più avuto voglia di sentirli e sono andato a mangiare una pizza pensando che, basta, ‘Unknown Pleasures’ e ‘Closer’ sono usciti 30 anni fa e passa, non è il caso di star sempre lì a riproporli e a discutere su quanto Ian Curtis sia un poeta morto troppo presto e Peter Hook un genio della musica. E poi io preferisco i New Order, di che stiamo parlando? Però dopo rientro per gli headliner e noto che la sala piena per più della metà (d’accordo, per gli Alt-J la settimana scorsa il locale di via Casilina vecchia traboccava di gente, ma questo è davvero un altro paio di maniche). Per un gruppo al primo disco e le cui gesta non son state propagandate più di tanto, il risultato è assolutamente lusinghiero. Se poi pensi che la platea è vasta e variegata, ancora meglio: ci sono i giovinastri alternativi come me, ma pure un mucchio di gente più adulta e/o con la foto di Robert Smith dei Cure come screen-saver dell’iPhone. E questo la dice lunga sul popolo del rock.
Quando mettono piede on stage si concedono poche parole, uno stentatissimo ‘grazie’ in italiano e Tom Dougall è vestito con un doppiopetto viola che gli arriva fino a metà gamba. Sembra un poeta maledetto di fine ‘800 con tratti somatici paurosamente simili a quelli di Brian Molko, incute pure un certo timore. La musica, cupa ed esplosiva, anche di più. Perché i TOY, quando si tratta di abbattere i muri del suono, non fanno troppi complimenti e cominciano. Mettono in scena tutte le canzoni dell’esordio, più ‘Left Myself Behind’ ( stranamente lasciata fuori dalla tracklist del cd, nonostante fosse il loro primo singolo ). Suonano alla grande i TOY. Merito soprattutto di un Dominic O’Dair con la camicia a fiori e dei fraseggi velocissimi e caotici della sua chitarra, sempre presente, chiarissima a perdersi in deliri che, se non ci fosse Alejandra Diez alle tastiere a dare un tocco di melodia mai banale che odora di kraut-rock, potrebbero ben definirsi noise. Merito del batterista, Charlie Salvidge, che pesta su rullanti, tamburi e piatti con un’euforia mai vista e trascina con sé il basso gregario di Maxim Barron, di cui, per colpa dei lunghi capelli calati sul viso, non son riuscito a vedere la faccia una volta che sia stata una durante tutta la durata del live. E il front-man, che fine ha fatto il front-man? Dougall è lì, in stato quasi catatonico, forse ispirato, e canta. Alle volte si volge verso la batteria, suona in ginocchio, viene trascinato dagli altri in lunghe code strumentali che finiscono per diventare la gioia degli ascoltatori e l’intima delizia degli astanti.
Ho i timpani violentati selvaggiamente, ma è la stessa sensazione che segue ogni ottimo concerto. Il risultato è eccellente. Si capisce dal fatto che moltissimi ( tra cui io ), finito lo show, corrono al banchetto del merchandising. Non per le magliette, quanto per i vinili. Loro cinque cresceranno, è questione di tempo, ma il livello qualitativo è già molto alto e l’esordio rimane uno dei migliori dell’anno appena trascorso. Non possiamo consigliarveli per i prossimi appuntamenti, perché Roma era l’ultima di 4 date italiane che hanno toccato rispettivamente Torino, Milano e Pordenone. Ma quando ricapiteranno da queste parti, fateci pure un pensiero.
 

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