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Adelchi alla tavola di Carlo Magno

di Mariano Colla
“Stranieri tra noi” è il titolo della rassegna “lezioni di storia”, inserita nel palinsesto di quest’anno della fondazione Musica per Roma.
Stranieri, nel senso di personaggi dai natali non italici ma che, tuttavia, hanno ricoperto un ruolo importante nella storia del nostro paese.
La lezione è stata tenuta da Massimo Montanari, docente di storia medievale e storia dell’alimentazione all’università di Bologna, dove è anche direttore del Master ”storia e cultura dell’alimentazione”.
Montanari, proprio nella veste di acuto studioso dei riti gastronomici dei così detti secoli bui, si è garantito l’accesso a documenti e a narrazioni un po’ a margine della così detta storia canonica, ma non per questo meno interessanti, anzi in grado di indagare aspetti della vita quotidiana in cui il cibo interviene con le sue lusinghe, seduzioni, inganni.
L’oratore ha preso spunto da eventi svoltisi nell’alto medioevo, nel periodo in cui le vite di Carlo Magno, re dei franchi, e di Adelchi, sovrano dei longobardi, si intrecciano, per raccontarci un curioso episodio dalle sfumature gastronomiche, laddove cibo, tradizioni, simbolismi e mitologia si mescolano con effetti singolari.
Il racconto ci riporta nella Pavia del 774 d.C.
Carlo Magno si è insediato a Pavia dopo aver sconfitto i longobardi, che avevano fatto della città lombarda la capitale del loro regno per quasi due secoli.
Adelchi è figlio di Desiderio, il re longobardo sconfitto, costretto, come il padre, a fuggire da Pavia dopo la vittoria dei franchi.
Fatta questa doverosa premessa storica entriamo nel vivo della narrazione.
Massimo Montanari legge una antico testo del X secolo, scritto da un monaco dell’abbazia di Novalesa, nel quale il religioso narra la storia di un particolare banchetto svoltosi nella reggia di Pavia, alla mensa del re Carlo Magno.
Dice il racconto: Adelchi male ha sopportato la sconfitta subita dal suo popolo ad opera delle truppe del re franco e vuole, in qualche modo, vendicarsi nei confronti di Carlo Magno per le angherie subite da parte delle truppe vittoriose.
Non avendo a disposizione né armi né truppe sufficienti per combattere, Adelchi architetta un piano, più dal valore simbolico che militare.
Si traveste da popolano al fine di non essere riconosciuto ed entra, nel far della sera, in Pavia. Tuttavia, malgrado il tentativo di dissimulare la propria presenza, Adelchi viene riconosciuto da un fedele servitore che, per necessità, presta ormai servizio alla corte del re franco.
Adelchi sa che ogni sera nella sala del palazzo reale si tiene, come consuetudine, un banchetto.
I banchetti, secondo la tradizione del tempo, sono ricchi di cacciagione, come puntualmente riportato dal testo del monaco. Le portate includono abbondanti porzioni di carne di orso, di cervo e di bue selvatico.
Sono tempi in cui il termine dieta non esiste. Il sovrano e i suoi commilitoni sono guerrieri e mangiano in abbondanza. Addentare e divorare cosci e lembi di animali è un dovere, oltre che un piacere.
Il guerriero deve esprimere a tavola tutta la sua voracità per non essere discreditato. Chi non mangia con avidità non può appartenere alla classe dei bellicosi armigeri e il re, ovviamente, non può essere da meno. La tavola e il banchetto sono luoghi e contesti in cui la società d’allora esprime i propri simboli battaglieri. La caccia rappresenta la ricerca e la sconfitta della preda, ed è una disciplina in cui l’uomo guerriero comunica la sua forza, la sua astuzia, il suo coraggio, soprattutto con animali di grossa taglia. Quindi la carne per i potenti è un dovere, perché racchiude in sé il simbolo della potenza fisica, in un intreccio simbolico – istituzionale.
Adelchi, tramite il vecchio servitore che, evidentemente, ancora gode di un certa influenza nell’assegnazione dei posti alla mensa reale, riesce a sedersi al tavolo del re Carlo, un po’ defilato, in modo da non essere notato.
Le tavolate medievali, secondo Montanari, erano abbastanza aperte e la selezione dei commensali non era particolarmente rigida. Il tavolo del sovrano non aveva una funzione escludente e i commilitoni gozzovigliano insieme. Ciò non significa che chiunque si potesse accomodare, ma i guerrieri in circolazione erano molti e non si andava per il sottile nella disposizione a tavola.
Adelchi, personaggio che la storia ci descrive alto e possente, opportunamente travestito, non sfigura alla mensa di tanti baldi e vigorosi giovani.
Secondo il testo dell’abate, il giovane longobardo, prima di sedersi, ordina al suo ex servitore, quanto segue: ”portami tutte le ossa che vengono via via spolpate durante il pasto e ponimele dinanzi”.
Il pranzo inizia e, dal racconto, quasi si percepisce il profumo della carne arrostita su grandi spiedi che, su fuochi scoppiettanti, si rosola lentamente.
Sembra di udire il digrignare dei denti e delle mascelle dei guerrieri che, avidamente, si avventano su quarti di bue o d’orso; sembra di avvertire il vociare convulso degli uomini d’arme che, tra schiamazzi e apprezzamenti volgari, innaffiano con boccali di vino le abbondanti vivande. In tale frastuono, e nella disattenzione generale, Adelchi riceve le ossa richieste, le addenta e le spezza, succhiandone il midollo, dopodiché le butta sotto il tavolo, accumulandole in un piccolo mucchio.
Quando il banchetto volge al termine Adelchi, cogliendo un particolare momento di distrazione di Carlo, si alza e se ne va.
Carlo, non molto tempo dopo, si accorge del mucchio di ossa sotto il tavolo ed esclama “per Dio chi ha spezzato tutte quelle ossa?”. Inizialmente è perplesso, poi è preda di un presentimento. Interroga i vari servitori, tra cui anche quello connivente nell’inganno, e intuisce chi era l’ospite e quale messaggio ha inteso fornirgli. Nell’intenderlo, dimostra come tra sovrani esistano linguaggi simbolici sconosciuti ai più. Solo un re può comportarsi da re.
La simbologia delle ossa spezzate, ci spiega Montanari, richiama miti e riti che si radicano nella notte dei tempi, nella mitologia dei popoli del nord Europa. Il significato del messaggio, in base a queste antiche leggende, è che con le ossa degli animali non si scherza. Romperle è augurare disgrazie e sfortuna. Gli spiriti degli animali morti, infatti, non si rigenerano con le ossa rotte, secondo un altro aneddoto di fonte nordica ancora più antico.
Il buona sostanza il racconto ci propone la sala di un banchetto che assume le connotazione di una quinta teatrale, in cui si esprimono forze contrastanti: vincitori e vinti, vecchi e nuovi invasori di un territorio che, già allora, viene chiamato Italia.
Dall’episodio Montanari prende spunto per affermare la situazione di meticciato che caratterizzava il medioevo. Meticciamento non casuale, bensì sostanza costitutiva di quel periodo storico.
L’Italia si è formata grazie alla progressiva interazione di gruppi etnici diversi ed è proprio grazie a questo prodotto composito, a cui hanno contribuito molteplici razze e culture, che il nostro paese può vantare la sua ricchezza e, al contempo, la sua problematicità.

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