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La felicità, questa sconosciuta

di Mariano Colla
Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky hanno dialogato all’Auditorium Parco della Musica sul tema felicità e democrazia. La conferenza, coordinata da Vittorio Bo, si è svolta nell’ambito del “Festival della Scienza” che, quest’anno, ha come soggetto la felicità.
Lo spunto della conversazione è stato il libro scritto insieme dai due conferenzieri “La felicità e democrazia. Un dialogo”, Edizioni Laterza 2011 (I Robinson).
Può sorgere spontanea la domanda: quale relazione c’è tra felicità, democrazia e scienza?
In realtà nel fitto scambio di opinioni tra Mauro e Zagrebelsky ho avuto l’impressione che il tema del confronto riguardasse più il rapporto tra felicità e democrazia che tra felicità e scienza.
In effetti, al di là di un breve cenno al ruolo della scienza nell’analisi dei processi neuronali che potrebbero influire nella determinazione di uno stato di felicità, la conversazione si è articolata sulla pluralità di significati incorporati nel concetto di democrazia e sull’eventuale possibilità di mettere la felicità al centro delle nostre decisioni politiche.
Epitteto diceva: “la felicità non consiste nell’acquistare e godere, ma nel non desiderare nulla, perché ciò significa essere liberi”.
La libertà sembra rappresentare, almeno per Ezio Mauro, uno dei valori fondanti della democrazia e nella libertà l’uomo può dare concretezza ai propri sogni e, in questa oggettivizzazione, esprimere la propria felicità.
Secondo Zagrebelsky l’idea che la felicità possa essere associata alla libertà viene in qualche modo smentita dal racconto del “grande inquisitore”, tratto dai “Fratelli Karamàzov” di Dostojevsky, laddove la libertà diventa un peso, una responsabilità che l’uomo comune è ben disposto a cedere, nella misura in cui può essere sgravato da obblighi onerosi. L’assenso a uno stato di servitù volontaria non darà la felicità ma può procurare la serenità che appaga l’uomo e lo conforta, sottraendolo alle insidiose ebbrezze della felicità stessa, sentimento vago, impalpabile, indefinibile, emozione istantanea e non duratura, svincolata altresì da considerazioni di carattere etico e morale.
Jim Morrison diceva che la felicità è fatta di un niente che al momento in cui la viviamo ci sembra tutto. Viene tuttavia da chiedersi: siamo veramente felici in un istante se questo istante non è aperto al futuro?
Zagrebelsky sostiene, che felicità non è benessere, dimensione questa collettiva, bensì una manifestazione intima e personale.
Prendendo come spunto la costituzione americana, il giurista fa notare che la ricerca della felicità è un diritto fondamentale dei cittadini.
Il mito americano della felicità nasce con il miraggio dell’avventura, della conquista degli spazi vuoti, del grande west. In Europa la dimensione del grande spazio, inesplorato e pronto ad accogliere e concretizzare sogni e aspirazioni, si è esaurita in tempi assai remoti, e da ciò potrebbe conseguire una diversa definizione di vita felice.
Quindi, è pur vero che con la libertà si vuole evocare l’illusione di una felicità a buon mercato – basta pensare ai simboli di alcuni partiti politici di destra e di sinistra che includono questa magica parola – ma rimangono i dubbi su quale prezzo l’uomo è disposto a pagare per ottenerla.
E allora la felicità va cercata altrove.
Socrate diceva: siamo felici quando si ha conoscenza di ciò che è bene per noi.
La felicità è allora legata a virtù morali quali, per esempio, coraggio, giustizia, saggezza, temperanza, pietà, come ci suggerisce la tradizione classica, oppure la felicità può anche derivare dall’esecuzione di atti malevoli e perversi? Questo è un discorso che ci porta lontano sulla distinzione tra bene e male.
Secondo Aristotele il possesso di virtù non è sufficiente per la felicità. Per essere felici bisogna agire e per gli stoici bisogna vivere in accordo con la natura.
Forse l’dea di felicità dei nostri giorni può apparire più sfumata, meno percepibile.
Ezio Mauro si sofferma sulla globalizzazione, divoratrice di identità, di differenze, di autenticità, piovra omologante sulla quale l’Occidente ha costruito se stesso per espandersi, poi, sull’intero pianeta. Un contesto socio-culturale sul quale è sempre più difficile incidere, se non restituendo valore etico al nostro agire politico e sociale. E’ un po’ come dire: la bestia non si cambia ma cerchiamo di migliorarne il “look”.
Se l’Occidente è la comunità dei diritti, si chiede Mauro, per quale motivo tali diritti li assoggettiamo alla nostra convenienza? Non rispettandoli acquisiamo quei vantaggi economici sui cui si regge il nostro meccanismo capitalistico. Noi non diamo un valore di verità alle cose in cui crediamo. Infatti stiamo comprimono i diritti del lavoro, nonostante facciano parte della democrazia.
Probabilmente lo stesso concetto di felicità sta mutando.
Il punto è che siamo immersi nel mondo della tecnica – dalla tecnica ci salverà solo Dio, diceva Heidegger. La tecnica non rende felici, perché proietta l’uomo in un mondo instabile, dove non c’è più riflessione e tutto diventa effimero, sostiene Zagrebelsky.
La politica è stata emarginata. La tecnica sta dominando il mondo, elevando a sistema il suo fine ultimo che non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità, bensì la tecnica semplicemente funziona e il suo funzionamento diventa planetario, sostiene Galimberti.
E’ la fine della politica, a meno di non produrre idee nuove in grado di far emergere valenze sociali che prospettino nuovi paradigmi su cui far crescere il mondo.
Bisogna credere in una democrazia feconda, che è il significato più antico della parola “felix”, che non sia pura esecutività, caratteristica univoca, quest’ultima, della tecnica. Se la democrazia ignora questa sua funzione creativa, propositiva, essa si spegne lentamente, portando nell’oblio anche la felicità. Oggi la società non è felice.
Il malessere aumenta e qualche cosa di nuovo deve emergere dalla vita e deve poter emergere dal basso, da nuovi virgulti. In fondo scriveva Marx che l’infelicità della società è lo scopo dell’economia politica. Purtroppo la globalizzazione è una via obbligata e solo un governo sovranazionale può gestire il processo.
In questa fase critica della nostra storia, sostiene Zagrbelsky al termine del suo lungo intervento, gli intellettuali sembrano assenti, proprio loro che dovrebbero essere i portatori delle nuove idee e dell’etica della cultura.
La politica attuale manca di tradizione, di storia, di ideali, di valori, strumentalizzata da una visione tecnico-economica di pura convenienza e ricca di simboli senza contenuti.
E i cittadini ne pagano le conseguenze, perdendo via via la loro identità culturale. Dobbiamo ricordarci, dice il giurista, che si è cittadini quando si è informati e consapevoli.
Siamo in una situazione in cui il vincolo europeo è più legittimante del voto democratico.
Quanto vogliamo essere consapevoli delle grandi scelte? La politica non può essere abbandonata a se stessa, ma deve essere arricchita con il ruolo di tutti, conclude Mauro.
Pur nell’ambito di un dialogo consensuale non sfugge il diverso pensiero dei due estensori del libro. Più ottimista Mauro, che vede ancora nella democrazia e nella politica dei veicoli per pervenire a dei momenti di felicità, più pessimista Zagrebelsky, che ha una visone piuttosto negativa del mondo attuale e che racchiude la felicità, qualora possibile, in un sfera sostanzialmente intimista.
Che dire allora, al termine del serrato confronto, su questa fantomatica felicità? Essa, sempre più impalpabile e utopica, sembra disperdersi nei meandri di una società sostanzialmente egoista.
Come siamo lontani da quando Boezio di Dacia nel XIII secolo diceva: “il bene più alto raggiungibile dall’uomo è la conoscenza del vero e l’attuazione del bene, e il piacere che da entrambe le cose deriva. E poiché il più alto bene che l’uomo può raggiungere si identifica con la sua felicità suprema, ne consegue che la suprema felicità umana si identifica con la conoscenza del vero, l’attuazione del bene e il piacere che da entrambe le cose deriva”.

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