di Mariano Colla
Il nostro caro e amato consumo è portatore di felicità?
Pare proprio di no.
Lo affermano Juliet Schor e Loren Anderson, due studiose americane che nella conferenza dal titolo: “Consumismo e felicità: perché vogliamo quello che non ci serve”, hanno animato uno dei dibattiti conclusivi del Festival della Scienza di Roma.
Alternandosi nella presentazione dei loro studi, le due ricercatrici hanno illustrato il risultato delle loro indagini su un tema quanto mai complesso e all’ordine del giorno, ossia sulla relazione tra consumo e felicità, sempre che al termine felicità si dia una definizione molto ampia, che include soddisfazione, piacere e benessere.
La prima domanda che la Schor e la Anderson si pongono è: di che cosa abbiamo bisogno?
La risposta immediata è che l’iperconsumo alimenta necessità inesistenti.
E’ la società che guida il consumo, agendo su componenti psicologiche legate all’emulazione, al desiderio di possesso, all’affermazione sociale, all’ambizione, etc.
Il consumatore è soggetto a una pressione costante e invasiva che determina la convinzione, del tutto ingannevole, che con il possesso di un bene si possa aspirare alla felicità.
La Schor, nel presentare il suo libro “The Wealth”, afferma che le attuali traiettorie del consumo sono incentrate sui volumi, e di fatto sono proprio i volumi, nella fagocitante acquisizione di risorse planetarie, a configurare scenari apocalittici, assai lontani da prospettive di felicità.
Sono ormai noti gli effetti climatici e ambientali dovuti allo sfruttamento di risorse e materie prime causato dal vertiginoso aumento dei volumi produttivi tarato sulle insaziabili esigenze di quella parte del mondo considerata più abbiente. L’economia produttivistica, alla base della società della crescita, manifesta tutti i suoi limiti e, tra essi, l’insuccesso nella ricerca della felicità.
Pur essendo ampiamente noti gli effetti derivanti da un costante superamento della così detta impronta ecologica, ossia le conseguenze di un consumo individuale non compatibile con le risorse del pianeta, la Schor fa notare che, tuttora, gli Usa hanno un’impronta ecologica di 7,2 ettari/persona contro gli 1,8 calcolati come media tollerabile dal sistema mondo.
Il modello americano presenta drammatiche tendenze, secondo le ricercatrici. Per esempio il settore dell’abbigliamento delinea un trend vertiginoso: dai 34 articoli/anno acquistati da ogni abitante nel 1991 ai 67 articoli/anno nel 2007. Inoltre la quantità di scarti è passata dai 120 milioni di kg nel 91 ai 500 milioni di kg nel 2004.
In buona misura molti articoli vengono gettati prima che si sia esaurito il valore d’uso.
Secondo un’altra analisi, ben il 25 % dei vestiti riposti nell’armadio non vengono indossati, a conferma di un surplus nelle abitudini d’acquisto.
Se tali dati dovevano ispirare una qualche forma di felicità nell’ambito della società opulenta, i grafici illustrati dalle ricercatrici americane mostrano che la correlazione tra consumo e felicità è molto bassa. L’ingordigia del consumo è una spirale senza fine, mai appagata, e in essa risiedono, al contrario, i germi del malessere che caratterizza i nostri tempi, laddove la felicità è una chimera.
E’ percepibile una innaturale obsolescenza degli oggetti acquistati, ritenuti non più utili o fuori moda, pur non avendo esaurito la loro funzionalità, in quanto escono da una prospettiva d’impiego a causa di un accantonamento emotivo, dettato dai media, dalla pubblicità, dal confronto sociale.
Negli Stati Uniti il debito contratto per il consumo di massa ha raggiunto un valore medio di 5.000 $ a persona.
In tale dimensione ciò che viene sacrificato sull’altare del consumo è lo stesso rapporto sociale.
E’ necessario cambiare qualcosa nel nostro modo di consumare, sostengono la Schor e la Anderson. Consumare meno non significa essere meno felici.
Quali soluzioni?
Al momento nulla di epocale appare alla ribalta, ma alcune novità inducono per lo meno delle speranze, e tra queste novità la progressiva affermazione del modello della condivisione.
Negli USA si stanno sviluppando piccole comunità che scambiano beni su internet secondo l’antica tecnica del baratto, con un progressivo maggior impiego dell’usato.
Inoltre, il superamento della miraggio del possesso diffonde il concetto di “sharing” che riguarda il mercato della auto, delle moto, delle biciclette, delle stesse case e dei posti letto a livello internazionale (vedi società: airbnb), come dimostrato dal successo di alcune aziende costituite da giovani che operano nel settore.
La stessa agricoltura sta adottando il meccanismo della condivisione, laddove alcuni terreni di proprietà vengono messi a reddito grazie a coltivazioni dedicate a clienti che richiedono alcune specifiche coltivazioni, con l’effetto di creare un rapporto diretto tra consumatore e coltivatore, dagli effetti benefici per entrambi.
E’ la nuova eco-nomics, una economia più equilibrata e partecipativa, che sfrutta l’efficienza per ridurre sprechi ed inutili sperperi.
I social network che si sono diffusi in questi ultimi anni hanno parzialmente risolto il problema della comunicazione interpersonale, anche se la hanno celato dietro una cortina virtuale che spesso non identifica le persone nelle loro vera dimensione.
L’esperienza del consumo collaborativo, che internet favorisce, si sta diffondendo e ciò porta con sé i primi sintomi di un cambiamento comportamentale per quanto riguarda acquisti e consumi. Emergono nuovi valori che ridimensionano il consumo fine a sé stesso per ricollocarlo in una più corretta dimensione di utilità.
Sono esperienze che consentono di superare il criterio del possesso, sostituendolo con la condivisione di beni e servizi. Dal possesso all’accesso: l’e-book al posto del libro, il download di musica al posto del CD, il car sharing invece della macchina sotto casa ferma, magari, 23h su 24, etc.
In Italia, per esempio ,vi sono già 20.000 utenti del servizio di car sharing.
In Germania il 75% dei giovani non ha automobile.
Dicono gli stessi giovani:”non vogliamo roba ma l’accesso ai bisogni che essa sollecita”.
Negli USA si sta diffondendo Quirky, società di sviluppo di progetti sociali a cui ogni creatore di nuove cose può accedere per vederla realizzata.
Da iperconsumo a consumo collaborativo: questa, secondo le ricercatrici americane, può essere una strada da seguire e da incentivare per arrestare la crescita incondizionata dei volumi.
Nel pensiero della Schor e della Anderson vi è certamente un pizzico di utopia, se credono sino in fondo alla diffusione dei modelli economici descritti.
In un mondo costruito sul consumo, dove il lavoro delle aziende e delle persone si basa proprio sulla produzione e sulla conseguente crescita economica, riesce difficile credere che la formula della condivisone possa avere un successo planetario.
Tuttavia, per dirla con Serge Latouche, uno dei guru di una maggiore sobrietà: “bisogna rompere il circolo infernale della creazione illimitata di bisogni e di prodotti, come pure quello della frustrazione crescente che questa genera. Il fallimento dell’obiettivo della felicità per tutti, promessa dalla società della crescita, obbliga a interrogarsi sul contenuto della promessa stessa“.
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