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Il cambiamento: realtà o utopia?

di Mariano Colla
Le arti non si occupano del vantaggio di chi le pratica ma dell’oggetto destinatario dell’arte. Quindi la politica, che è l’arte del governare, deve fare l’utile del suddito e non del governante.
Questo è quanto sosteneva Socrate nella Repubblica di Platone.
Certamente, anche ai tempi di Platone la politica faceva le sue bizze, tant’è che a Platone è stata addirittura attribuita l’opinione che la tirannide fosse l’esito finale della democrazia, quest’ultima vista come caos e disordine.
Non a caso Trasimaco, personaggio, appunto, della Repubblica, affermava che “in una comunità politica il giusto non è altra cosa se non l’utile del più forte”, laddove il concetto non era tanto riferito a un regime dittatoriale, quanto alle parti dominanti in una democrazia, ossia la maggioranza.
Sono considerazioni che mi sono ritornate in mente in questi giorni di tribolazione sia per noi, non più sudditi ma, più o meno, consapevoli cittadini, sia per coloro, nostri presunti governanti, che dovrebbero assicurare, parafrasando il concetto iniziale, il nostro utile.
Sono dei giorni di passione, non tanto perché ci avviciniamo alla Santa Pasqua, quanto per il preoccupante spettacolo che la politica ci sta riservando.
Siamo reduci da un ristretto periodo in cui la politica aveva formalmente abdicato al suo ruolo istituzionale a favore di un governo di tecnici, governo dai più subito e, spesso, vessato, un po’ perché non vi è politica che cede facilmente il potere, un po’ perché gli interessi di parte rischiavano di subire serie ripercussioni, delegando ad altri decisioni su cui l’elettorato di riferimento era particolarmente sensibile.
La politica ha sofferto, “obtorto collo”, la propria posizione subalterna e, per mesi, ha reclamato il proprio ruolo e la propria funzione istituzionale, nonostante le facesse comodo che altri levassero le castagne dal fuoco al posto suo in una situazione economica e sociale particolarmente difficile.
Ebbene ora i politici veri sono ritornati al potere e che cosa accade ?
Prima di tutto è curioso notare il grido di dolore che da più parti emerge contro la mala politica e come, alta, si senta la voce che richiede cambiamenti radicali nell’etica, nella morale e nei privilegi di una casta inquinata da scandali, opacità e sotterfugi, elementi che tuttora sottendono l’impianto di una politica che, per lustri, ha sottratto risorse pubbliche allo Stato prima e ai cittadini poi.
Sembrerebbe quindi manifestarsi la vocazione comune alla trasparenza, alla giustizia e alla sobrietà, almeno in una buona parte del nuovo Parlamento, sebbene nel coro degli aspiranti solisti emergano evidenti dissonanze. Compare una sgradevole disarmonia tra le varie voci del coro, laddove in assenza di un direttore d’orchestra, regna l’anarchia e il pubblico, trepidante, ne sopporta le conseguenze in ansiosa attesa che una guida riaccordi la diaspora sonora.
Da queste complesse elezioni è emerso un corpo inorganico e disarticolato, difficilmente ricomponibile, a meno che i demiurghi della politica non vi mettano la necessaria volontà e una buona dose di compromesso. Si sa che la politica è compromesso e negoziazione, soprattutto in un sistema democratico.
Non è il momento di sfasciare tutto nella speranza di ripartire da zero
Se la pulizia morale è il denominatore comune delle futura azioni di alcune forze politiche, e a me sembra che tra alcune forze vi sia questa identità di intenti, la priorità richiede, senza incorrere nei rischi di grandi coalizioni o inciuci, l’identificazione di un terreno comune su cui agire presto e bene, anche a scapito del sacrificio di alcuni principi importanti, ma forse meno rilevanti in questo momento. Insomma, per il bene comune si può, a mio avviso, sacrificare qualche frangia identitaria, magari da riproporre in periodi meno critici.
Il cambiamento, a meno di non incorrere in una rivoluzione, è un processo graduale che richiede definizioni di priorità, accordi, identificazione di obiettivi comuni, pur nel mantenimento di una risolutezza poco sensibile alle lusinghe del potere.
La concretezza e la fermezza nel raggiungimento di obiettivi condivisi da una solida maggioranza ci sono imposti dall’estrema gravità della situazione sociale ed economica del nostro paese.
La partita del tutto o niente non la si può giocare in un sistema democratico. La saggezza imporrebbe una maggiore coesione, una definizione di priorità, l’elaborazione di un cambio di direzione, di un nuovo orientamento che superi le inefficienze gli scandali e le rapine del passato, ponendo particolare attenzione alle questioni che ci riguardano più da vicino come lavoro, occupazione, ruolo in Europa, etc.
Se ciò non avviene, sorgono allora dei ragionevoli dubbi sugli insondabili effetti della seduzione del potere, a cui non sono ovviamente insensibili né i vecchi né i nuovi attori della politica.
Si riafferma, allora, il vecchio teatrino della politica, in cui ognuno fa i suoi interessi, ognuno porta l’acqua al proprio mulino, indifferente alle responsabilità che la situazione richiederebbe.
La responsabilità è indice di maturità e questa non la si esercita richiamandosi ai vecchi schemi di chi ha vinto e chi ha perso. Qui si rischia di perdere tutti.
La politica è un’arte e bisogna essere preparati per esercitarla. Non si diventa politici semplicemente andando in piazza animati da formule populiste foriere di aspettative utopiche.
Con queste elezioni abbiamo perso tutti se i rappresentanti delle nostre scelte non riescono a trovare un terreno comune su cui articolare un programma, anche solo di breve termine, per risolvere l’emergenza.
La strada dei principi irrinunciabili fa parte di un’altra storia, sebbene anche in politica ve ne siano, giustamente, alcuni.
Ma se la volontà è quella di cambiare, chiunque se ne voglia fare portatore non può essere una voce fuori dal coro. Non credo sia impossibile accordarsi su alcuni meccanismi di controllo, atti a verificare l’effettiva attuazione dei cambiamenti richiesti.
Il chiudersi dietro ad affermazioni del tipo “o governo io o niente” non risolve il problema per cui le forze del cambiamento sono nate.
Guai se la parola si fa potenza e non dialogo.
foto: Ansa

1 COMMENTO

  1. Quante parole, “non è il momento di sfasciare tutto”…certo, lasciamo che tutto rimanga come adesso, in modo tale che chi si ritrova in posizioni di vantaggio rispetto agli altri (senza peraltro meritarle) continui a promettere il cambiamento senza far nulla per realizzarlo. Per poi magari tra 10/20 anni essere qui a scrivere di nuovo le stesse identiche parole, magari riadattandole al contesto e dando una “parvenza” di cambiamento.

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