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My Bloody Valentine: (molto di più di) un terremoto a Roma

di Francesco Corbisiero
Il 1991 fu l’anno – forse l’ultimo nella cronologia recente, insieme al 2002 – delle grandi uscite: ‘Screamadelica ‘dei Primal Scream, ampio e variegato caleidoscopio di ogni accezione e sfumatura di colore contenibile nel termine ‘dance’, il Black Album ( omonimo in realtà ), che portò alla definitiva consacrazione dei Metallica di Ulrich ed Hetfeld, ‘Nevermind’ dei Nirvana, pietra angolare del punk-rock ( sì, diciamolo una volta per tutte che il termine ‘grunge’ è una menata di immani dimensioni messa su dai critici musicali per mettere un coperchio su tutta la musica che ribolliva in quel calderone chiamato Seattle nei primi anni ’90 ) che prese a schiaffi Micheal Jackson facendolo scivolare dal primo posto in hit-parade, ‘Innuendo’, capolinea art-pop di quei Queen che a novembre persero Freddie Mercury, ‘Spiderland’ degli Slint, atto fondativo del cosiddetto post-rock, e ‘Blood Sugar Sex Magic’ dei Red Hot Chili Peppers, ormai incamminatisi dal furore funk degli esordi a soluzioni più commerciali e commerciabili.
Mi son dimenticato di sicuro qualcosa, ma è presto detto che è questo il baricentro dell’articolo che avete sotto gli occhi: quattro ragazzi irlandesi alla loro seconda volta in sala di registrazione per un Lp ( prima di Isn’t Anything ci erano entrati solo per consegnare al pubblico una bella serie di Ep solo successivamente raccolti in un unico volume ) diedero alle stampe uno dei più bei dischi del decennio allora appena iniziato. Per scriverne con cognizione di causa però tocca partire da prima, dal dream-pop di metà anni ’80, da gruppi come i Cocteau Twins della voce angelica di Elisabeth Fraser , dai Jesus and Mary Chain, dagli Echo and the Bunnymen. Insomma, da una new wave più raffinata e sognante. Lo shoegaze non è nient’altro che dream pop, lanciato a velocità supersonica contro un muro e lasciato schiantare lì, mentre gli amplificatori ronzano rabbiosi al massimo volume e le teste dei musicisti sul palco si chinano concentratissime sulle loro scarpe. I My Bloody Valentine in quel 1991 diedero al mondo ‘Loveless’. Un gioiello che cristallizza musica potente e atmosfera, indimenticato e amato dai fan, massima espressione e insieme purtroppo, canto del cigno, in coppia con ‘Nowhere’ dei Ride, di un modo diverso di fare rock dopo gli anni estenuanti dei sintetizzatori a palla e dei batteristi pestoni come epopea godereccia e danzante dell’edonismo reaganiano. Gioiello che costò quasi la bancarotta alla Creation ( storica etichetta discografica inglese tra le cui fila militava il gruppo all’epoca ), composto in buona parte dal frontman chiuso nella sala di registrazione che probabilmente vide passare al suo interno più produttori di quanti ne avrebbe visti una qualsiasi altra nella storia della musica, tuttiMy_Bloody_Valentine licenziati a raffica nel giro di pochi giorni l’uno dall’altro, rei di non assecondare le volontà della one-man-band. E poi? Poi più nulla, se non le opere di collaborazione di Shields come produttore con gruppi come Dinosaur Jr. e Yo La Tengo, fino al 2007, anno della reunion ( se mai scioglimento c’è stato ) corredato da rumori di corridoio e dichiarazioni a mezza bocca sempre più insistenti sulla fase di composizione di un nuovo disco. Un intervallo che è durato ventidue anni, caso rarissimo nella storia della musica contemporanea e ancora di più nell’era del music business. Periodo di tempo in cui però lo shoegaze è diventato oggetto di culto e genere feticcio per molti appassionati di rock alternativo e soprattutto per una quantità di persone molto più numerosa di quanti lo seguissero nel suo momento d’oro ( la retromania – come la chiamerebbe Simon Reynolds – fa miracoli, e non solo nelle boutique ).
‘M b v’, terzo figlio dei quattro dublinesi, esce la notte del 3 febbraio di quest’anno, all’improvviso e in download sul sito ufficiale del gruppo, che poco dopo andrà in tilt sotto i colpi di una moltitudine immensa di utenti affluiti sul luogo del delitto. M b v ha la strana ( e non casuale, per i più smaliziati malpensanti ) caratteristica di venir pubblicato nel momento in cui il revival è al culmine, perché col tempo gli adepti del genere sono cresciuti e i musicisti che hanno voluto raccogliere il testimone di quella breve eppure appassionante tradizione musicale seppellita solo dalla restaurazione Sixties del brit-pop di metà ‘90 non sono tardati ad arrivare: A Place To Bury Strangers, DIIV, TOY, The Raveonettes ( seppure in chiave pop ), M83 ( seppure in chiave elettronica ), etc. Il terzo disco dei My Bloody Valentine è erede rispettabile, ma non all’altezza del suo predecessore. Non  perché meno bello, sicuramente inciderà in maniera inferiore, e del resto son cambiati i tempi: se nel 1991 gli shoegezers furono gli ennesimi salvatori di un rock che sin dalle sue origini è sempre stato dato per morto e ogni volta pronto a resuscitare in seguito a qualche trovata geniale di un musicista inglese o americano, stavolta invece sembra che a scandire questo ritorno sul palco ci sia più nostalgia che altro, ed è senz’altro un bene se si pensa a quanti ritorni di fiamma musicali sono dettati più dalla legge del vile denaro che da reali e urgenze artistiche rinnovate dal tempo. Il risultato è un’opera molto più ragionata e per questo meglio bilanciata, con un bell’andamento filmico ( primo tempo – lungo intervallo – secondo tempo ) di 3 canzoni per volta e senza troppi fronzoli. Musica obliqua, ma nell’abbassamento di prospettiva porta a casa il risultato. Meno spontanea senza risultare meno vivace, nasce gia vecchia – pardon, vintage – per la gioia di chi non avrebbe potuto chiedere di meglio proprio per il fatto che il capitolo di questa storia era in forse ed è stata una già grande fortuna poterselo godere.
Ed è così motivati che si è partiti alla volta dell’Orion di Ciampino, secondo e ultimo atto italiano dopo la tappa all’Estragon di Bologna per un gruppo che in questo paese non c’era mai stato. Premessa importante: il Rock in Roma quest’anno ha messo su una bella selezione di artisti internazionali, ha puntato alto e va riconosciuto agli organizzatori il merito di aver dato vita ad un’estate romana interessante e ricca ( con l’unica, enorme pecca della mancanza di abbonamenti, come negli altri grandi festival europei e quindi ricca vuol dire che se non c’hai i soldi – tanti – per i biglietti ti prendi la solita birra a Piazza Trilussa e amen  ). La special preview infatti, quella che andiamo a raccontarvi e che vede protagonisti i personaggi di cui sopra, è ghiottissima e di mercoledì all’Orion di Ciampino si ritrovano qualche centinaio di persone, mica poco, tutto sommato: molti quarantenni che all’epoca vivevano la loro giovinezza e ancora più ragazzi nati proprio negli anni della breve rivoluzione musicale dello shoegaze che ne hanno avvertito i fasti come echi lontani. Il timore è che tutto finisca come un My+Bloody+Valentinequalsiasi Any Given Monday, pogo sfrenato e cori sui titoli più attesi. Ma quando la meravigliosa Belinda Butcher tutta vestita di seta e con addosso una giacca a fiori bianca e blu, un Kevin Shields invecchiato divinamente, Colm O’ Closoig e l’ultra-dark Debbie Googe salgono sul palco portandosi dietro la solita mezz’ora d’attesa si capisce che non sarà così, che il pubblico starà fermo e non la butterà in caciara.
La geniale trovata di questo concerto è stata mettersi di fronte al subwoofer sinistro attaccato al soffitto. Il bollettino medico riporta gravi danni ai timpani. Sì, perché il marchio distintivo del gruppo è la distorsione e, insomma, c’è davvero qualcuno che pensa che avrebbero fatto eccezione per questa data?
La scaletta, però, è insolita. Una forte presenza degli Ep, molti cavalli di battaglia da ‘Loveless’, pochissimi brani dall’ultima opera. Fa riflettere. Perché se si conosce un minimo quel nerd della musica che è Kevin Shields, l’impressione è proprio quella per cui dopo questo album non ce ne sarà affatto un altro, che ‘M b v’ è solo la chiusura di un ciclo, una raccolta di b-side da proporre per splendere un’ultima volta e poi eclissarsi. O l’ennesima beffa di un musicista ribelle che non vuole adattarsi a proporre le canzoni dell’ultimo disco nel tour promozionale dell’ultimo disco, come generalmente in uso.
Colpisce l’impatto del live che valorizza in maniera esponenziale il contenuto dei cd e una sessione ritmica che realizza miracoli in terra col basso e le percussioni, entrambi affiatati e pronti a tirare su l’inferno, colpisce l’uso sapiente del sintetizzatore per accompagnare l’impianto rumoristico delle canzoni, colpisce quanto  i testi delle canzoni, sussurrati, diventino alla fine un fatto relativamente importanti di fronte ad un complesso che sfascia non solo metaforicamente il muro del suono portando sul palco, alle sue spalle, la bellezza di 19 amplificatori Marshall sparsi un po’ ovunque, colpisce il pavimento che trema sotto i piedi quando a  metà di ‘Feed me with your kiss’, ultimo brano, prima dell’ultimo ritornello i quattro fuggano sui binari elettrificati di riverberi e delay e indugino per minuti e minuti e colpisce la struttura pop delle canzoni rivestita d’indumenti punk e l’utilizzo della chitarra tipico di un certo rock americano in voga sul finire degli ’80. Avanguardia ancora oggi.
Colpisce ( in negativo ) il solito atteggiamento di una certa parte del pubblico che crede che ai concerti si vada con la stessa foga con cui si va allo stadio, quando sarebbe stato molto più saggio lasciare che un religioso silenzio facesse da tappeto rosso alle canzoni e la smorfia seccata di Shields ad un certo punto, dopo aver provato nel corso del concerto diverse volte gli attacchi iniziali per controllare l’accordatura della chitarra, come a dire ‘Ma guarda dove siamo finiti…’, segno forse di un servizio tecnico/fonico non eccelso.
Eppure nonostante le macchie, gli esiti rimangono straordinariamente soddisfacenti, l’appagamento a fine serata è palpabile, l’acufene all’apparato uditivo è lì a un passo da noi e le notizie degli spettatori ‘per moda’o ‘perché è il gruppo del momento’ non ci sono pervenute. La musica, quella vera, i costumi passeggeri li scavalca a pie’ pari e sbugiarda il tempo, e che vuoi che siano 22 anni per far nascere un album e venire finalmente in questa disgraziata città per un concerto di cui, no, non metterò la scaletta, cercatela su setlist, ché quel che conta è l’atmosfera e per ritrovarla ormai vi tocca consultare i voli low-cost per qualche destinazione estera in cui continuerà il tour, scelta che tuttavia non ce la sentiamo di sconsigliavi, anzi.
 

1 COMMENTO

  1. posso tranquillamente dire che l’organizzazione dei fonici all’evento è stata semplicemente una porcheria.
    Accaparrarsi nomi internazionali importanti non significa avere un festival di qualità se poi abbiamo sempre cazzoni pretenziosi al mixer che non capiscono un cazzo del gruppo che hanno davanti.
    Il concerto si può dire che ha fatto un pò cacare,ma non per colpa dei MBV,quanto per quei due fonici di merda e il loro amichetto incompetente che era alla destra della postazione coi mixer.
    la gente e il gruppo chiedeva di alzare le voci. I fonici lo facevano,e questo coglione gli faceva riabbassare i volumi dopo un pò.
    poi ti chiedi perchè miliardi di gruppi decenti schifano questo paese per venire a suonare. zero rispetto per gli artisti e zero rispetto per il pubblico. apprezzo comunque lo sforzo del gruppo di andare avanti con la scaletta…fossi stato shields lo avrei fatto solo per il pubblico,ma avrei chiesto di insultare chi il proprio lavoro non lo sa fare per niente. e non c’è storia che tenga,per imparare a gestire un mixer non ci vogliono competenze di sorta,serve solo un minimo capire che artista si ha davanti e i timpani buoni. Complimenti allo staff dell’orion ancora una volta per aver dimostrato la mediocrità di questo paese di fronte all’universo dei concerti

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