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Un pubblicitario fuori dal coro

di Elisabetta Rossi
Nel suo blog su Il Fatto Quotidiano, Bruno Ballardini si presenta così: “Sono nato a Venezia nel 1954. Ho militato nelle più grandi agenzie di pubblicità, ora mi occupo di comunicazione strategica e scrivo libri. Quelli a cui sono più affezionato sono due: uno del 1994 in cui ho dichiarato per primo la morte della pubblicità. E un altro del 2000 in cui ho dimostrato che è stata la Chiesa a inventare il marketing, libro tradotto in 11 paesi. L’ultimo è del 2011 ed è la risposta a una sfida che mi è stata lanciata da un cardinale. Si intitola ‘Gesù e i saldi di fine stagione’ (Piemme). Spero di avergli risposto a tono.”
Ballardini, uno dei più accreditati strateghi italiani di marketing e comunicazione strategica, esperto di filosofie orientali è da poco in libreria con “L’Arte della Guerra nella vita quotidiana” edito da Piemme: l’antica sapienza di Sun Tzu (v secolo a.C.) per vincere sui campi di battaglia della vita di ogni giorno.
«La vita è una guerra», «la politica è un campo di battaglia», «per vincere in affari, in amore e in guerra, non bisogna farsi scrupoli». Chi non ha mai sentito pronunciare frasi del genere, che rispecchiano la mentalità di una società che si esprime quasi esclusivamente attraverso lo scontro tra le parti, quale è la nostra?  E la pubblicità ai tempi della guerra? Per ogni conflitto bellico che esplode, persiste, finisce, i media ci tempestano di notizie che sembrano voler far passare messaggi pubblicitari politici, economici, sociali tesi a manipolare indirettamente l’opinione pubblica. Cosa ne pensa?
L’abbiamo visto tutti. Dalla guerra in Iraq in poi i media e la propaganda bellica hanno assunto un ruolo centrale nella gestione dei conflitti. L’uso della comunicazione strategica, fondata quindi sugli stessi principi su cui si basa quella pubblicitaria (definizione di obiettivi ed elaborazione di strategie per colpirli), ha permesso di orientare l’opinione pubblica sia a livello locale, sia a livello mondiale, impedendo di far capire quali fossero le ragioni vere dei conflitti.
Negli ultimi decenni, la pubblicità commerciale si è persa in una crescente convenzionalità, che l’ha resa sempre più invisibile. Nel resto del mondo, solo la pubblicità elettorale continua a innovare: dall’indimenticabile manifesto con l’uomo “incinto” che rivelò Margaret Thatcher, fino alla “forza tranquilla” personificata da Mitterrand, passando per Barack Obama e la sua sottoscrizione popolare. E in Italia?Bruno Ballardini
In Italia siamo molto indietro rispetto a questo. La comunicazione politica è ancora all’età della pietra e ci si affida ancora oggi più spesso a “spin doctor” impratichiti da due o tre stagioni elettorali piuttosto che a professionisti della pubblicità. Se a questo si aggiunge che i pubblicitari seri si tengono alla larga dai committenti politici perché sono notoriamente dei pessimi pagatori (a cose fatte, sia che abbiano vinto sia che abbiano perso, hanno la bizzarra abitudine di “dimenticarsi” di pagare), è ovvio che la comunicazione politica in Italia non cresce e non si evolve. E resterà così ancora per molto tempo. D’altra parte è anche giusto: è lo specchio della politica stessa.
La pubblicità ai tempi di Internet è un fenomeno da collocare in un sistema di glocalizzazione, dove il globale ed il locale possono essere visti come i due lati della stessa medaglia, oppure no?
Sì ma questo discorso è già vecchio. Come sostengo ne “La morte della pubblicità”, dopo la caduta dell’Impero, quello dei vecchi media, ci sarà un ritorno alla barbarie, un lungo periodo di transizione in cui coesisteranno brandelli di Impero e nuovi regni digitali in quello che ho definito “Media Evo” che durerà parecchio tempo prima della stabilizzazione di uno standard che consenta un “nuovo Rinascimento” della pubblicità. Attualmente non è possibile perché gli standard cambiano ogni sei mesi, a causa del nostro “consumismo digitale”. È un cane che si morde la coda. Digitale anche quella.”
Che cos’è l’emorragia digitale?
Se ci riferiamo al caso recente di hackeraggio cui è stata vittima la Sony, per cui sono stati “bucati” i server della multinazionale e rubati tutti i dati personali degli utenti del PlayStation Network compresi i numeri delle carte di credito e dati personali, in realtà si coglie solo uno degli episodi di un fenomeno molto più vasto che coinvolge la sicurezza dei dati sulla “nuvola”. La rivoluzione del cloud computing era stata lanciata come l’ultima frontiera strategica nella lotta per la difesa della sicurezza dei dati e con questo i grandi provider della telefonia e della connettività hanno cominciato a lanciare questo business come alternativa ai server locali e proprietari. A quanto pare non è esattamente così. Anonymous e molti altri hacker l’hanno dimostrato. Per ogni strategia c’è sempre una contro-strategia. E il mondo digitale non fa eccezione.
Secondo alcune ricerche,  le pubblicita più efficaci sono quelle che divertono il pubblico e, grazie all’originalità del contenuto, rendono il prodotto più desiderato dal pubblico. Il futuro del marketing sarà un puro intrattenimento?
Mostratemi queste ricerche le voglio proprio vedere e voglio sapere anche come sono state condotte. Da quando faccio il pubblicitario so per esperienza (e lo sanno anche i committenti per cui ho lavorato che sono le più grandi multinazionali del largo consumo) che il consumatore vuole essere prima di tutto informato del beneficio che può ottenere dall’aver scelto un prodotto specifico, non basta affatto “intrattenerlo”. Il motto di una agenzia storica come la McCann è da sempre “Truth Well Told” ovvero “la verità detta bene”. E quindi informazione, informazione e ancora informazione possibilmente fatta in modo intelligente e brillante. La pubblicità con le battutine, le frecciatine, i doppi sensi, le gag comiche e tutti gli ammiccamenti della commedia nazional popolare è tradizione italiana e funziona solo per abitudine, perché difficilmente il convento da noi passa qualcosa di diverso. Come accade anche per San Remo. La nostra pubblicità tende sempre a regredire allo stadio infantile e cioè a “Carosello”. Ma dipende anche dall’ignoranza dei clienti (o “utenti pubblicitari”).
I nostri cugini francesi sono più avanti di noi, non c’è niente da fare. Arrivano a promuovere il loro territorio e il loro patrimonio persino in luoghi, diciamo, non consoni: nella Champagne la pubblicità dei prodotti locali si fa anche nel bagno degli hotel per non perdere nessuna occasione per ricordare all’ospite dove si trova…
Invece noi abbiamo castelli in abbandono che non vengono sfruttati nemmeno per farci un bed & breakfast, prezzi dei ristoranti semplicemente scandalosi rispetto all’estero, tour operator che propongono sempre gli stessi banali itinerari da cartolina… Pompei che crolla è l’icona della nostra industria turistica che crolla. Io lo trovo fantastico. Voi no?
Secondo una strategia di marketing orientata a creare un legame emotivo tra la marca e il cliente, l’amore salverà l’Italia: è, dunque, così amabile il nostro Paese? E può essere considerato davvero un marchio commerciale?
Questa mi sembra una reminiscenza della teoria dei “Lovemarks” di Kevin Roberts. In realtà quella teoria si è rivelata puro fumo, una sorta di strategia seduttiva da parte della Saatchi & Saatchi per conquistare nuovi clienti che ci credevano. Non esiste nessun legame emotivo fra una marca e l’utente soprattutto se la “marca” si è sputtanata come l’Italia. Nessuno crede più nemmeno al “made in Italy”, quando esportiamo mozzarelle contaminate. Qui c’è da fare un enorme lavoro sul prodotto-Paese prima di parlare di comunicazione. E nel frattempo l’America lancia sul mercato i nuovi computer Apple eliminando ogni traccia di produzione cinese e tornando al “made in Usa” di un tempo. Significa che loro quel lavoro su se stessi hanno già cominciato a farlo. Noi no. E siamo senza strategie.

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