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L'ho uccisa perché l'amavo – Falso!

di Elisabetta Rossi
Loredana Lipperini giornalista, scrittrice e conduttrice radiofonica terrà una conferenza sul femminicidio l’11 novembre alle 17,45 nell’ambito di Idòla la rassegna genovese dedicata a falsi miti e luoghi comuni in corso a Palazzo Ducale. image
E sul potere delle parole. Che è l’argomento centrale del saggio «L’ho uccisa perché l’amavo – Falso!» (Laterza, 9 Eur), scritto da Loredana Lipperini e Michela Murgia  e, purtroppo, un punto di vista originale: «Non ci sono simboli, ma persone, ed è bene ricordarlo ancora: gli uomini non hanno la violenza nella loro natura, così come le donne non hanno la bontà nella loro. Bisogna cercare di venirne a capo. Cominciando, ancora una volta, dalle parole. Che siano analizzate, pensate e restituite come è giusto che sia, in un mondo che le sta perdendo per fretta e ingordigia. Le morti esistono. Le morti pesano. Bisogna raccontarle dalla parte delle donne uccise, ma rispettando il loro essere state persone, senza appropriarsene. Perché bisogna che sulla pelle delle morte nessuno speculi più».
Il termine femminicidio è più di una parola, il termine è corretto e non solo dal punto di vista linguistico: come cita il Devoto-Oli rappresenta «qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte».
Le autrici puntano l’indice sui media che veicolano messaggi ambigui, basta leggere alcuni titoli riportati in appendice: Pronuncia il nome dell’ex fidanzato, strangolata per gelosia; L’ha uccisa perché non voleva perderla; Folle d’amore picchia e getta l’ex fidanzata dal viadotto; Delitto passionale: camionista uccide l’ex moglie e altre tre persone…
Nel mirino dei lettori, le due autrici smascherano anche i criminologi e gli statistici d’attacco che rigirano le cifre e le percentuali per dimostrare la loro tesi, cioè che il femminicidio è un’invenzione di femministe scriteriate e soprattutto non esiste come problema sociale.
Loro dimostrano il contrario con argomenti inoppugnabili e si soffermano sul potere delle parole.
Non esiste in Italia un osservatorio nazionale sul femminicidio come in altri paesi, per esempio Spagna e Francia, ma i dati vengono raccolti da associazioni e gruppi di donne basandosi esclusivamente dalle notizie riproposte dai mass-media. Tale metodologia fa pensare a una forte sottostima del dati in quanto solo una parte degli omicidi sono riportati dalla stampa. Al numero di 124 donne uccise nel 2012, indicate dalla Casa delle donne, si devono aggiungere le vittime collaterali coinvolte nel femminicidio, quindi uomini e bambini (totale vittime 132).
Nel 1993, l’antropologa messicana Marcela Lagarde utilizza il termine femminicidio per comprendere: «la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine – maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria o anche istituzionale – che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia».

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