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Storia di un esordiente e dello scrittore che le insegnò a volare. Intervista a Maurizio De Giovannni

Di Kristine Maria Rapino – 1a Classificata del Premio Letterario Sandor Marai
Intervista allo scrittore Maurizio De Giovanni (Presidente della Giuria)

Maurizio De Giovanni
Maurizio De Giovanni

Lui, lei. Uomo e donna. Lui sorriso largo, sguardo contagioso. Camicia oltremare aperta fino al secondo bottone. Qua e là spunta, risoluto, qualche verbo. Lei emozionatissima nel suo vestito chiffon dal taglio marinaro e gli aggettivi démodé. Lui la osserva da lontano, seduto dietro al tavolo assieme agli altri personaggi, giocherellando con la frase. Lei arrossisce. Di tanto in tanto, le scivola un avverbio e s’inumidisce di virgole le labbra. La sala è piena di occhi, fa caldo. Ci vorrebbe un’esclamazione, pensa. Con un ventaglio, spigrisce quell’aria immobile di metà settembre gravida di sostantivi, profumi di donna e pagine attraversate per arrivare fin lì. Lei lancia un’occhiata all’orologio. Lui le fa l’occhiolino. Manca poco all’incipit.
Lui e lei, personaggi di due storie diverse. Finché l’Autore non decide di farli coincidere nello stesso capitolo. Accade una sera nella Sala Consiliare del Comune della città di Pompei. E se lei sono io e lui è il notissimo autore di gialli Maurizio De Giovanni, la storia da scrivere non può che avere un titolo: “Premio Sandor Marai”. Sarà amore a prima pagina.
unnamed (2)Perché “uno scrittore racconta storie”, rivela De Giovanni, sempre. Quando s’intrecciano, può nascere l’incontro tra una scrittrice esordiente e uno dei suoi scrittori preferiti, il padre biologico del Commissario Luigi Alfredo Ricciardi. In comune, la passione per le parole lasciate a mezz’aria, il vento, i vicoli zoppi, i panni stesi al sole e l’odore carnale della vita che si attacca alla carta stampata. Perché scrivere è un verbo che si usa al gerundio: vivendo.
Occhi negli occhi, lo intervisto. Ce l’ho davanti a me in carne e ossa, la storia dei suoi caffè e delle sue camicie rimboccate, col suo indiscusso fascino partenopeo. Gli chiedo di raccontarmela, quella storia, di regalarmi qualche consiglio. Lui sorride, mi guarda. Poi, apre le virgolette.
Lo scrittore racconta storie. Meno è presente, meno è davanti, meno si ascolta, più spazio ha la storia. Quindi tu, se vuoi scrivere, devi fare solo due cose: devi leggere e devi avere la storia. Non devi fare altro. Avere la storia, leggere e devi conoscere gli strumenti. È una condizione necessaria e sufficiente. Quindi, tu hai entrambi, decisamente. E in più hai una capacità di decriptazione sensoriale che è straordinaria, quindi io prevedo facilmente che se saprai ricordare che devi raccontare storie, sarai sempre assolutamente eccellente“.
Anche la sua storia è cominciata, nel 2005, con un concorso. Ha partecipato, quasi per scherzo, a un concorso indetto da Porche Italia per giallisti emergenti e l’ha vinto. Che opinione ha adesso dei concorsi letterari?
Io non credo che il concorso in sé sia un trampolino di lancio. Il concorso è un’occasione per cui uno che racconta storie trova il coraggio di metterle fuori. Cioè il concorso è un’occasione, è un detonatore, è un catalizzatore. Più che il concorso, è la voglia di raccontare che è fondamentale.
Scrittori si nasce o si diventa?
Io credo che non devi a tavolino decidere di fare lo scrittore e quindi trovarti qualcosa da scrivere. È quello che hai da scrivere che ti porta a essere uno scrittore. Quindi, devi avere forte nel cuore l’esigenza, la pulsione a scrivere una storia. Senza questa pulsione, senza questa esigenza, non ci può essere storia.
Il fuoco sacro?
No, l’esigenza non di scrivere, di raccontare. E sono due cose diverse. Una storia prevale sulla scrittura. Deve prevalere.
Quindi, uno scrittore deve essere spinto dal raccontare una storia, non dal raccontarsi. Eppure, nell’attuale panorama editoriale c’è molto narcisismo letterario, c’è molta autofiction. Pressoché tutti si svegliano la mattina e avvertono il dovere morale di scrivere quello che hanno dentro, pensando che possa interessare a qualcuno. Dilaga il fenomeno dell’autopubblicazione. Lei pensa che questa sia la strada giusta? Si riesce, alla fine, a raccontare davvero qualcosa d’interessante?
Se io faccio l’agente segreto e voglio raccontarmi, è facile che possa essere interessante. Se io faccio l’impiegato del catasto è molto meno facile che possa essere interessante quello che devo dire. Io non ci credo. Non credo nell’autofiction, non credo che sia interessante per gli altri sapere quello che uno pensa della vita o cose del genere. È interessante se c’è qualcosa di diverso, se sono cose particolari. Io mi annoierei mortalmente a leggere quello che pensa uno come me. M’interesserebbe molto sapere come va una storia d’amore del mio vicino di casa. M’interesserebbe molto sapere che tipo di morte possa fare accidentalmente un ragazzo che esce da casa con l’idea di tornare la sera, e invece non torna mai più. Perché non si ferma a un posto di blocco un carabiniere di stato. M’interessano queste storie. Non m’interessa sapere che cosa sento io nei confronti della vita. Almeno parlo da lettore, insomma.
Il giornalista Beppe Severgnini ha ideato e quindi suggerito agli scrittori esordienti di seguire la regola del P.O.R.C.O. (Pensa, Organizza, Rigurgita, Correggi e Ometti). Lei ritiene che sia importante seguire delle regole quando si parla di scrittura?
Io penso che se esistesse una regola, esisterebbe un solo libro. E tutti scriverebbero sempre e perennemente quell’unico libro. Ringraziando Iddio una regola non c’è. Credo che se una regola ci deve essere è quella di non pensare a chi leggerà. Se tu quando scrivi pensi a piacere, non piacerai mai, perché sarai banale. Devi sempre pensare a fare in modo che i tuoi personaggi ti raccontino la storia. Se i tuoi personaggi ti raccontano la storia, tu devi raccontare quella storia. Se finisce male, finisce male. Non devi indorare nessuna pillola a nessuno. Perché la scrittura è imitazione della vita. E la vita non indora pillole.
Wilbur Smith, fino a qualche anno fa, scriveva nella sua stanza con vetrata sulla Savana. Gabriele D’annunzio si rifugiava nell’eremo sulla Costa dei Trabocchi, a picco sul mare Adriatico. Lei dove scrive?
Io scrivo nella mia stanza, come suonano i pianisti nei Saloon dei film Western, cioè mentre attorno sparano. Cioè, la mia famiglia continua tranquillamente a fare tutto il solito casino. Io riesco per fortuna ad andarmene altrove con la testa, vado nel posto che sto raccontando. Quindi la risposta corretta è: io scrivo nel luogo che sto raccontando. Non è rilevante dove tu mi collochi fisicamente. Io vado nella mia mente nel posto che devo raccontare.
Nell’immaginario collettivo lo scrittore scrive abitualmente di notte. Pratica che, per quanto mi riguarda, non riesco a seguire e spero di non essere dequalificata per questo. So che lei, invece, segue dei ritmi ben precisi di scrittura. Non è così?
Tutti e dieci i miei romanzi sono stati scritti in un mese. Io vado nel luogo dove devo scrivere, quindi scrivo per sette, otto ore al giorno, poi mi fermo ogni paio d’ore, perché sennò la scrittura si sfalda, perde intensità. Quindi, ogni paio d’ore mi riposo una decina di minuti facendo altre cose, leggendo altre cose o semplicemente fermandomi, guardando il cane, dormendo, chiacchierando con qualcuno dei miei familiari e dopo riprendo a scrivere. Credo che per scrivere bisogna immergersi. Se riesci a immergerti nel posto e nel racconto che stai facendo, hai buone possibilità di raccontare una cosa verosimile, altrimenti no.
Il tema del concorso era: “Radici e amore per il proprio territorio”. A lei, Presidente di Giuria, questa tematica calza a pennello, dal momento che nei suoi romanzi Napoli, con i suoi odori, i suoi sapori, è l’indiscussa protagonista. A proposito dei personaggi, ce ne sono tantissimi e sono tutti eccezionalmente veri, in carne e ossa. Li annusi, sono materici. Come nascono questi personaggi? Siamo ancora autorizzati a pensare che si sieda al Gran Caffè Gambrinus come la prima volta e che li veda passare?
Io credo che tu abbia la tua risposta nel racconto che hai fatto. Il tuo racconto è straordinariamente sensoriale. È il racconto di una serie di emozioni innescate da eventi fisici. Il racconto è quello che uno scrittore vede dalla finestra. Sempre. Dovunque dia la finestra. Se io guardo dalla mia finestra il condominio di fronte e ci sono venti finestre, io in un unico sguardo avrò venti racconti. Anche la finestra buia mi racconta qualcosa. Quello che raccontiamo è quello che vediamo, e basta. Se tu racconti te stessa, i tuoi racconti finiranno prima o poi. Perché tu, prima o poi, finisci le storie da raccontare. Se tu racconti gli altri, hai un infinito numero di storie, non finiranno mai. Il segreto è raccontare gli altri e non raccontare sé stessi, nemmeno il sé stesso che guarda. Devi avere l’umiltà, l’onestà e la bontà nei confronti dei lettori di fare un passo indietro e di raccontare quello che vedi e non te stesso.
Una curiosità mia: perché il commissario Ricciardi non porta il cappello?
Perché la testa deve essere libera. Se non liberi il ricevitore, le trasmissioni non ti arrivano. Ricciardi non può portare il cappello perché sennò è uno schermo. E Ricciardi non può avere schermi, Ricciardi deve ricevere tutto quello che gli arriva, bello o brutto che sia.

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