Ottava puntata: dalla quinta di Beethoven alla sesta della Ferilli
Di Kristine Maria Rapino
Beethoven era sordo. Mozart era matto. Handel era cieco.
Tu che scusa hai? Se vuoi che nessuno ti rinfacci di non aver scritto le Seconde Nozze di Figaro o la sinfonia n.55, devi mentire. Spudoratamente. Rivendica almeno una lieve dissenteria, un accenno di calli o un pizzico di sciatica. Purtroppo per te, non serviranno. Ha ragione Benigni. Nella vita ci sarà sempre un Dottor Randazzo a smascherarti.
In realtà, non ti si chiede né una malattia tropicale né un prodigioso talento musicale. Ma in un testo, almeno una cosa devi saperla riconoscere. Un nome: Ritmo. Non importa se non si produce più dal 1988. Perché la scrittura è musica. Se il discorso indiretto è un adagio per archi, il dialogo è un accenno di ska. Ha un ritmo in levare, un sound sgambettante e contaminazioni stilistiche da globalizzazione testuale. Deve far ballare tutti. Nonna col deambulatore compresa.
Il dialogo permette l’incontro di più punti di vista. È l’affaccio sul vicolo di un borgo medievale. Stretto, animato. A volte, oscuro. Dalle persiane ci si apre alla propria tessera di cielo, limitata da canali e inquietanti gargouille. Si parla da finestra a finestra senza uscire di casa, davanti al vetro sporco e al cesto di panni da stendere. Un’esposizione di confidenze, a duecento metri dal mare. La salsedine narrativa resta nell’aria.
In questo duello verbale, i personaggi si muovono con disinvoltura. Attenzione, però. La situazione può sfuggirti di mano. Un personaggio, a tua insaputa, potrebbe nascondere nell’armadio miniabiti di paillettes, lingerie abbondanti – e una sciarpa della Roma. L’altro, invece, potrebbe manifestare uno spiccato interesse per i serramenti, i sonetti e i germogli di soia. In questo modo, avrai l’incredibile dialogo tra la Ferilli e un Leopardi salutista. Risultato: un personaggio uscirà molto più sviluppato dell’altro. Così, mentre il primo metterà in mostra un invidiabile décolleté narrativo, il secondo al massimo guarderà le siepi e strapperà un paio di battute da vivaista.
Evitare favoritismi letterari garantisce maggiore simmetria. E conduce a una dimostrazione. Il buon dialogo, infatti, è sempre un outing: rivela l’orientamento testuale. Devi avere chiaro l’obiettivo, sapere cosa vuoi dimostrare. Non inserire tutto. Solo ciò che interessa. Le tergiversazioni meteorologiche o il cicaleccio da Circolo del Luppolo lasciano il tempo che trovano. La comunicazione deve essere altamente proteica. Poco importa sapere che tempo farà domani, se i protagonisti sono scassinatori impegnati a caricare un kalashnikov – magari pioverà, e rimpiangeranno l’ombrello a pallini, anziché il mitragliatore a piombini.
Oltre al dialogo, un testo può offrire anche momenti di solitudine narrativa. È il monologo. Se Leopardi è troppo impegnato a guardare fuori dalla finestra, la Ferilli potrà tranquillamente riversare le sue frustrazioni sul lettore. Il quale – non trattandosi di un libro illustrato, la ascolterà. Siamo tutti vittime del primo foruncolo e dello specchio in corridoio. Amleto in testa. Un, due, tre: via all’autocommiserazione. L’impatto con la superficie riflettente è sempre stato devastante, fin dai tempi dei fratelli Grimm. Essere o non essere. Tubi o non tubi. Il problema resta sempre lo stesso: la più bella del reame non sono io. Mi tocca farmene una ragione.
Dunque…
Siamo all’ottava lezione del laboratorio di scrittura Rai Eri.
Definiamo ancora qualche punto della costruzione del dialogo. Abbiamo già indicato alcune regole base, utili soprattutto a posteriori, quando rileggiamo il testo.
Per un dialogo di successo occorre ritmo. Un andamento musicale. È quello che il lettore coglie immediatamente. Il dialogo non è altro che una partita di ping pong. Al termine, ci sarà sempre qualcuno che vince e qualcuno che perde. Si mettono in gioco di due posizioni, due sentimenti. In altre parole, due punti di vista. Così come in uno dei tanti dialoghi quotidiani. Un esempio perfetto ne è il racconto ‘Un posto pulito, illuminato bene’, di Ernest Hemingway, considerato uno dei migliori della narrativa breve. Due camerieri: un vecchio e un giovane. Due sentimenti messi in gioco: l’accoglienza del primo, che si attarda anche oltre l’orario di lavoro pur di servire i clienti; la frenesia della gioventù del secondo, che non vede l’ora di tornarsene a casa. Sembra che predomini la staticità. Eppure, c’è una forte drammaturgia. E, ovviamente, un apice.
Ne leggiamo insieme un estratto.
“Perché non gli hai permesso di restare a berne un altro?” chiese il cameriere che non aveva fretta. Stavano già chiudendo la serranda.
“Non sono ancora le due e trenta.”
“Voglio andare a casa, a letto.”
“Che differenza fa un’ora?”
“Fa più differenza per me che per lui.”
“Un’ora è sempre un’ora.”
“Adesso parli come se fossi vecchio anche tu. Poteva comprarsi una bottiglia ed andare a bersela a casa.”
“Non è la stessa cosa.”
“No, non lo è.” acconsentì il cameriere che aveva una moglie. Non voleva essere ingiusto. Aveva solo fretta.
“E tu? Non hai paura ad andare a casa prima del solito?”
“Stai cercando di insultarmi?”
“No, hombre, sto solo scherzando.”
“No,” disse il cameriere che aveva fretta, alzandosi dopo aver agganciato la serratura di metallo. “Mi fido. Mi fido molto.”
“Hai gioventù, fiducia e un lavoro,” disse il cameriere più vecchio. “Hai tutto.”.
“Ed a te cosa manca?”
“Tutto, tranne un lavoro.”
“Hai le stesse cose che ho io. ”
“No. Non mi sono mai fidato di nessuno, e non sono giovane.”
“Avanti. Smettiamola con queste sciocchezze e chiudiamo.”
“Io sono uno di quelli a cui piace restare al caffè fino a tardi.” disse il cameriere più vecchio.
“Con tutti quelli che non vogliono andare a letto.”
“Io voglio andare a casa ed infilarmi a letto.”
“Siamo di due tipi differenti,” disse il cameriere più vecchio. “Non è solo una questione di età o di fiducia, anche se queste sono comunque cose molto belle. Ogni notte sono riluttante a chiudere perché potrebbe arrivare qualcuno che ha bisogno del caffè.”
“Hombre, ci sono bodegas aperte tutta la notte.”
“Tu non capisci. Questo è un caffè pulito e piacevole. E’ illuminato bene. La luce è molto buona e poi, adesso, c’è l’ombra delle foglie.”
Buona notte,” disse il cameriere più giovane.
“Buona notte,” disse l’altro.
Il dialogo deve essere musicale. In questo, letteratura e cinema si assomigliano. Fonte d’ispirazione legittima e molto feconda è, infatti, la cinematografia. Si può anche partire da un’imitazione, da un sentimento suscitato dalla visione di un film. Tra tanti, è memorabile il dialogo tra Totò ed Elena che dopo più di trent’anni si ritrovano in ‘Nuovo Cinema Paradiso’, di Giuseppe Tornatore. Oppure – è doveroso da parte mia citarlo, il celebre dialogo de ‘La mia Africa’ di Sydney Pollack, tra Denys Finch-Hatton e Karen Blixen.
– Ma perché la tua libertà deve essere più importante della mia?
– Non lo è. Non ti ho mai impedito di sentirti libera.
– No, ma io non ho il permesso di volerti o di contare su di te. Oppure di aspettarmi delle cose. Ho il permesso di lasciarti. Ma io ho troppo bisogno di te.
– Non hai bisogno di me. Se io morissi, moriresti anche tu? Non hai bisogno di me. Tu confondi. Non sai distinguere il bisogno dal desiderio.
– Oh mio Dio, se il mondo fosse fatto come vorresti tu, l’amore non esisterebbe affatto.
– Sarebbe bellissimo. Un mondo che non abbiamo mai avuto.
– Allora dovresti vivere sulla Luna.
Dunque, qual è il confine tra cinema e letteratura?
Quali differenze esistono tra i due dialoghi appena letti? Poche. Il lettore deve poter assistere alla scena, come se la vedesse proiettata su uno schermo. I grandi dialoghi si ricordano. Come quelli di Edoardo De Filippo. E del dialogo, quando è ben fatto, il lettore ricorda soprattutto cosa l’autore voleva dimostrare con quello scambio di battute. Infatti, la cartina tornasole con cui rileggiamo il dialogo è: che cosa volevo dimostrare? Perché il dialogo non è altro che una dimostrazione. Solo al termine della scrittura di un dialogo, in realtà, si comprende il punto di vista. Su quello ci si deve soffermare, eliminando tutto ciò che non conduce all’obiettivo. Fare in modo che emerga. Scopri di aver dimostrato qualcosa nel momento in cui lo scrivi. Non prima. Ci sono delle esperienze che sono fungibili solo vivendole attraverso la scrittura.
Qual è il centro del dialogo? Il dialogo è simmetrico. Il centro è la tua dimostrazione. Per trovarla, è necessario individuare le domande che ti aiutino a capire il punto centrale e facciano emergere i personaggi. Occorre una rivelazione. Un dialogo può anche fondarsi molto sul “non-detto”, ma solo quando il “detto” è molto chiaro. Bisogna arrivarci. Se hai chiaro il punto di arrivo, ti bastano pochi passaggi. Ma netti.
Occorre una dinamica. A volte si resta nel bozzetto. Accade quando la situazione non si evolve. Per passare dal bozzetto al racconto ci deve essere più narrazione. Questo significa che deve succedere qualcosa, ci deve essere un cambiamento. Non necessariamente uno stravolgimento. In genere, le buone soluzioni sono quelle che potenziano ciò che già c’è.
Un suggerimento: un buon dialogo è quello che si legge senza avere alcun tipo d’indicazione. Funziona anche se estrapolato dal contesto. È pressoché lo stesso criterio di valutazione che usano gli appassionati di fumetti. Alla prima occhiata, sai se è efficace.
Uno degli errori più frequenti nella scrittura di un dialogo è: sviluppare un personaggio più di un altro. La caratterizzazione è molto importante. I contrasti devono essere definiti, perché emergano entrambi i caratteri. Tuttavia, ci sono situazioni in cui quest’approccio è non solo comprensibile, ma ampiamente giustificato. Sono i casi in cui un personaggio ha la funzione di maestro e l’altro di discepolo. Pensiamo al ‘Siddharta’. La differenza, in queste circostanze, deve essere ancora più marcata. Con una voce narrante più chiara. Lo stesso caso si presenta nei dialoghi di accusa. Ne è un esempio il dialogo tra Antonio e Piera tratto dal romanzo di Dino Buzzati, ‘Un amore’. Si ha la quasi totale prospettiva di solo uno dei due dialoganti. Di fatto, però, l’altro personaggio viene fuori tutto attraverso le parole di chi ha maggiore ruolo narrativo. È un ingegnoso escamotage, al quale si ricorre con frequenza.
Altro espediente narrativo per entrare in contatto con il personaggio è il monologo.
È un parlare tra sé e sé. In teatro, significa inevitabilmente un parlare allo spettatore. Nella scrittura, significa parlare al lettore. In entrambi i casi, il monologo è una grande simulazione. Fingiamo che il personaggio rimugini fra sé e sé. È chiaro che non può essere la fotocopia di un eventuale discorso fatto nel chiuso della propria stanza. C’è sempre chi spia. Il lettore, come lo spettatore.
Ciò che regge il monologo è il tema forte. Anche nel monologo devo avere cura di costruire il personaggio. Si è già detto che occorre conoscere: azione, pensiero, parola. A volte, c’è l’ulteriore necessità di “infilarsi dentro” al personaggio. Questo è il caso del monologo. La voce narrante si deve infilare nella sua mente, in caso di voce narrante esterna, e riuscire a trasmetterci i suoi pensieri. In caso di io narrante, sarà il protagonista stesso a compiere un percorso dentro di sé. Alcuni autori hanno l’incredibile capacità di usare una falsa prima persona, pur rimanendo all’interno della terza. Infilandosi nel cervello del protagonista. È una scelta molto difficile, ma apprezzata. Pensiamo allo scrittore contemporaneo Maurizio De Giovanni e agli straordinari monologhi in terza persona del Commissario Ricciardi. Sono scelte che vanno bene quando risultano coerenti con l’impostazione del racconto. La docente del corso, Paola Gaglianone consiglia: «Avvicinate l’orecchio al cervello del protagonista e sentite il rumore dei suoi pensieri. È un bell’esercizio. Ci aiuta».
Eppure, io ci ho provato. Non funziona.
Sarà che ho scelto Paris Hilton.