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Un bel romanzo di una brutta guerra. L'ultimo contributo di Pietro Gattari

di Achille Pisanti
L’ultimo romanzo di Pietro Gattari, LA PRIMA SETTIMANA DI MAGGIO, uscito per l’editore Castelvecchi pochi mesi prima della scomparsa dell’autore, ribalta completamente il modulo narrativo adoperato da Gattari nel suo primo romanzo, IL DUCA, che avevo avuto l’onore di presentare a Roma lo scorso inverno, insieme a Gattari stesso, Stefania Taruffi e Alfonso Veneroso (ricordo una serata letteraria molta ben riuscita, organizzata dall’amica Cinzia Bellone).
Ne IL DUCA l’autore ricostruiva con molto talento affabulatorio la statura di protagonista di Federico da Montefeltro, affiancandolo alle personalità che ne avevano accompagnato o contrastato l’esistenza (il suo medico curante, nonché voce narrante, la dolce consorte Battista Sforza, l’odiato Malatesta da Rimini e tanti altri), con sfondo, bene illuminato e a fuoco, tutto l’ambiente artistico e culturale di quell’epoca illustre (in primis, Piero della Francesca).
In questo secondo romanzo invece, narrato in terza persona da una voce onnisciente, a far da comparse e comprimari sono proprio i grandi uomini, i generali, gli strateghi, gli intellettuali, su fino al re Vittorio Emanuele III, mentre è il personaggio minore e oscuro della vicenda storica, il giovane cameriere Filippo, a farsi protagonista di primo piano, e attraverso di lui riviviamo, in full –immersion, la Grande Guerra del 15-18 nei suoi aspetti umani, culturali, militari e politici, ma soprattutto emotivi e psichici.
Era stato, il primo, il resoconto di una lungimirante visione di governo, questo secondo è al contrario l’atto di accusa di una micidiale e colpevole miopia politica e militare.
Voglio ricordare che il prossimo 24 maggio 2015 ricorrerà il centenario di questa controversa pagina della nostra storia, oggetto di un dibattito mai completamente risolto tra le istanze patriottico-nostalgiche, quelle censorie e giustificatorie, e quelle apertamente critiche, pacifiste e antiautoritarie.
LULTIMA-SETTIMANA-DI-MAGGIO_Layout-1Il diciannovenne Filippo, ragazzo romano figlio di un barbiere di Trastevere e cameriere al Caffe Aragno di via del Corso, è figlio altresì della storia e della cultura del suo periodo, affascinato dalle idee dell’interventismo, della bella morte pre-fascista, della retorica di riconquista dei territori che l’unità d’Italia aveva lasciato allo straniero (Trento e Trieste): parole d’ordine tutte che accompagnarono e promossero la partecipazione italiana al primo conflitto mondiale.
Ammaliato inizialmente (come del resto tutta la sua generazione) dall’idea astratta ed estetica della guerra, Filippo, con la sua viva presenza quotidiana nelle file dell’esercito italiano in guerra, compie quel percorso, doloroso e catartico, da eroe ad antieroe, che è tipico di una ricostruzione analitica e imparziale di quella tragica vicenda bellica.
Eppure Filippo, fin dalla partenza volontaria per il fronte, non è mai personaggio velleitario, fanatico o particolarmente ideologizzato.
E’ un ragazzo intelligente e semplice, che fa della lealtà e del senso comune l’unico viatico che lo possa accompagnare in quell’avventura funesta.
Filippo rifugge dal disfattismo e non si tira indietro rispetto alle responsabilità militari assunte, ma, sperimentando sulla sua pelle, attraverso i suoi occhi, gli orrori e le assurdità della trincea italiana, inevitabilmente matura una visione dolente e umanizzata della realtà, liberandosi, di pagina in pagina, di ogni sovrastruttura super-oministica o dannunziana.
Non è un caso, infatti, che Gattari apra il romanzo proprio sulla fascinazione che il suo giovane protagonista subisce da parte di un intellettuale complesso come Scipio Slataper, conosciuto nel Caffè dove Filippo lavora.
Il percorso concettuale dello scrittore triestino, infatti, dalla sua partecipazione volontaria alla guerra (pur mantenendo una forte critica all’irredentismo esaltato) fino alla sommessa crisi morale e spirituale che ne precede la morte in battaglia sul Podgora, è il paradigma che Gattari intende rispecchiare analiticamente nell’animo del suo protagonista, questo simpatico e un po’ svagato Filippo, che va in guerra con la sua impazienza tutta adolescenziale, e che alla fine di quell’orribile esperienza troverà nell’amore per la giovane e candida Galilea l’unica terapia possibile per curare il male di vivere che quella guerra ha istillato nella sua psiche.
Quindi ci troviamo di fronte anche a un romanzo di formazione in cui le prove che il giovane protagonista deve affrontare per diventare uomo
sono del tipo più crudele possibile (e voglio ancora ripetere che un’intera generazione d’italiani – anzi due, perché nel momento più disperato del conflitto furono richiamati alle armi anche quarantenni e cinquantenni – si è formata in quel modo luttuoso).
Torna utile riportare le parole con le quali lo stesso Slataper definisce l’incanto della sua fantasia metà italiana e metà slava:” …le nostalgie strane, un desiderio (…) di foreste abbandonate: una sentimentalità bisognosa di carezze, di compiacimenti, un sognare infinito senza confini” (S. Slataper, Alle Tre Amiche, Milano 1958).
Non sembra riecheggiare in queste frasi il bisogno estenuato di sentimentalità al quale approda il protagonista di Gattari? Ed anche la sorprendente scelta finale di Filippo – che ovviamente non sveliamo – non è forse dettata dallo stesso desiderio di foreste abbandonate, o dal sognare senza confini?
La risposta non può che essere affermativa perché la vicenda di Filippo è tutta giocata sul doppio binario della partecipazione all’epopea devastante della guerra e dell’immersione nelle ombre del suo inconscio minacciato e traumatizzato.
L’apocalisse della trincea, veneta eppoi trentina, costituisce la dimensione tragica che accompagna il protagonista dall’inizio alla fine del romanzo, vera e propria funesta metafora della disumanizzazione (uomini come topi).
A Gattari interessa raccontare l’inferno della guerra di trincea attraverso le angosce e le paure mortificanti che quella follia collettiva che fu il fronte alpino ingenera nel suo protagonista e nei suoi compagni: giovani impreparati e inesperti, mandati allo sbaraglio a fare i conti colla morte atroce, con l’autorità spesso inetta, col senso di colpa per la paura provata e infine colla negazione dell’istinto stesso di sopravvivenza (pena le fucilazioni o il suicidio).
Gli scontri alla baionetta, l’esposizione alle bombe, alle cannonate, alle mitraglie e ai gas, lo smembramento dei corpi, l’odore della carne bruciata e del sangue rappreso, le deiezioni, il fango, il gelo, la fame, la sporcizia, eppoi l’epidemia e la misera fame di mezzo milione di profughi italiani: condizioni di vita che altro non sono che condizioni di sofferenza, di umiliazione e di morte.
Tutto ciò rivive attorno a Filippo, anzi è Filippo che sopravvive, nonostante tutto ciò. Sono pagine grondanti orrore, dolore e paura che non si dimenticano facilmente.
Su questo realismo agghiacciante domina la grande geografia del conflitto, quella capacità dell’autore (già notata nel precedente romanzo) di farci vedere la guerra nei suoi elementi militari e strategici (le armi, i cannoni, gli strumenti tecnici, le maschere anti-gas, gli equipaggiamenti, il cibo, gli habitat, etc.), oltre che nello sgomento, nel terrore ma anche nel coraggio temerario di chi la sta combattendo.
Ma, a differenza del punto di vista aereo (a volo di uccello) che inquadrava i combattimenti di Federico da Montefeltro, qui prevale il punto di vista schiacciato e rasoterra di chi è accucciato nella trincea, tra fango, soldati e cadaveri ammassati: un punto di vista claustrofobico che ci opprime fin dalle prime offensive.
E’ tale la precisione con cui è raccontato il conflitto che proporrei all’editore Castelvecchi di aggiungere, in una riedizione di questo romanzo, una o più mappe geo-storiche dei luoghi degli scontri, delle battaglie, delle linee da conquistare, insomma un riscontro visivo delle dettagliatissime azioni militari, descrizioni che non sono mai pedanti perché si traducono ogni volta in scenari dove il conflitto militare si fa scontro di uomini, di sentimenti contrastanti, di emozioni: dramma sanguinolento e melodramma di un conflitto assurdo.
Sembra di averli davanti agli occhi quei colli, quei dirupi, quelle rocce, quei campi di battaglia, anzi monti di battaglia, che diventano cupi luoghi interiori in cui si sperimenta l’iniziazione reiterata alla crudeltà, alla violenza, al panico.
La scrittura di Gattari tende per sua stessa natura alla fictionalizzazione delle scene di massa, con quel passo epico e poderoso che ci ricorda (come già avveniva ne IL DUCA) la narrazione spettacolare di un Victor Hugo. Contemporaneamente la sua è una scrittura che vuole fondere gli elementi del realismo con quelli della documentazione e della cronaca, e qui il riferimento alla lezione di John Dos Passos (autore prediletto da Gattari) è d’obbligo.
9409e0e9b7f9b9a35b857af359806d25Ma a voler fare anche un riferimento in immagini , che è allo stesso tempo un riferimento etico (e la scrittura di Gattari ce ne autorizza), bisogna citare il film di Francesco Rosi UOMINI CONTRO: stesso argomento, stessa forza di critica , stessa dolente pietas umana, stesso percorso da eroe ad antieroe del protagonista (Gian Maria Volonté). E non è inutile ricordare che, per quel film, Francesco Rosi fu denunciato per vilipendio all’esercito (in seguito assolto in istruttoria), e che la distribuzione del film fu ampiamente boicottata.
La visione pacifista e antimilitarista del racconto della prima guerra mondiale ha sempre provocato censure e prese di distanza istituzionali, e non solo in Italia. La stessa cosa era avvenuta infatti anche per ORIZZONTI DI GLORIA di Stanley Kubrick (il governo francese non permise che il film fosse girato in Francia). E solo il fatto che LA GRANDE GUERRA di Mario Monicelli fosse un apologo in forma di commedia (ma che commedia amara e sarcastica sull’esercito italiano …), ha evitato problemi simili.
Per questa ragione attendiamo con molta curiosità e interesse il dibattito critico che si aprirà in occasione del centenario, nel quale speriamo che il romanzo di Pietro Gattari trovi il riconoscimento che merita: un riuscito romanzo impietoso e scioccante su una guerra sbagliata.
Per fortuna di Filippo (e del lettore) l’orrore raccapricciante di quella guerra è nel romanzo intrecciato e in parte controbilanciato (ma solo in parte) dalla sua vicenda amorosa che, pur se continuamente minacciata dalle emergenze belliche, tuttavia ci regala qua e là pause di respiro e conforto dell’animo. L’amore di Filippo per Galatea è da Gattari molto teneramente trattato, e fornisce al lettore la possibilità di aderire anche sentimentalmente al messaggio pacifista del romanzo.
Voglio concludere con una considerazione amara ma necessaria.
Un romanzo realistico, emotivo ma soprattutto etico sulla Grande Guerra qual è L’ULTIMA SETTIMANA DI MAGGIO, non poteva prescindere dalla riconsiderazione di quel tema filosofico ed estetico che ne ha rappresentato lo slogan propagandistico: l’idea della bella morte.
Questo feticcio concettuale e ideologico è presentato fin da subito dai personaggi che ruotano attorno al protagonista (e da Filippo stesso, che ne rimane suggestionato), eppoi ripreso, per essere demistificato e smascherato, durante tutto il corso della narrazione: esso diventa cioè una delle funzioni negative che mandano avanti il racconto (l’altra è sicuramente l’inettitudine del comando strategico e militare del conflitto).
Traspare su questo piano, con nettezza, la volontà quasi rabbiosa dell’autore di interrogarsi sul paradosso filosofico e culturale dell’idea stessa di bella morte.
In questo senso è sintomatico che l’autore scelga di far incontrare, sulle alture in una pausa della battaglia, il suo Filippo con il giovane poeta ancora sconosciuto a nome Giuseppe Ungaretti: colui che in seguito, dall’euforia interventista, approderà alla tematica disincantata e amara dell’umano naufragio.
Ma per Gattari la demistificazione del concetto della bella morte non sfocia nel naufragio pessimista dell’esistenza (come in Ungaretti ).
Egli ci fa capire come il suo protagonista Filippo, attraverso la tragedia esteriore del conflitto e quella psichica del suo io, riesca a svuotare di senso l’ipocrita menzogna estetica di una morte che possa essere bella, per pacificarsi, con un’umiltà decisamente tolstoiana, nell’idea semplice di una vita buona che sia riparo e affetto, e che della morte non faccia mai mitologia: personalmente considero questa interpretazione una lezione spirituale che ci lascia l’autore.

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