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Franco Arminio, acquerello su Napoli in un pomeriggio senza tempo

di Lidia Monda

Franco Arminio
Franco Arminio

Sarà che la giornata di ieri era piovosa e bigia, e si trascinava pigra come ogni giornata d’aprile.
Ma anche con l’umidità che fiaccava il pensiero, accomodarsi nel salotto di Napoli, nella galleria d’arte Intragallery, per ascoltare Franco Arminio e la terza delle “conversazioni cromatiche” curate da Benedetta de Falco, è stato un po’ come concedersi un momento di meditato riposo e insieme fare il pieno di quella sensibilità che carda l’anima come un telaio, e alla fine ci rende tela migliore.
Franco Arminio, poeta e ‘paesologo’, viene da Bisaccia, un paese accovacciato sull’appennino e sulla storia, con lo sguardo rivolto verso est. La sua Irpinia d’Oriente. E da qui parte per raccontarci, pur professandosi di passaggio, della nostra città, o meglio di noi stessi attraverso la città.
È un approccio intimistico il suo. Non a caso Arminio sceglie i colori dell’acquerello – verdi, azzurri, grigi- sfumati e tenui, per disegnare una Napoli con pennellate di grande interiorità e d’impalpabile leggerezza.
Arminio parla della città e dei suoi dintorni, di quell’ammassamento urbano da Salerno al Garigliano così vicino a un delirio antropologico e così difficilmente comprensibile per uno che viene da un paese, dove è il senso del vuoto, più che del pieno, a farla da padrone. Ma nelle sue parole non c’è biasimo, il rilievo della differenza non è mai giudicante, piuttosto è spunto di riflessione e di crescita interiore.
Intragallery
La galleria d’arte Intragallery

L’approccio a Napoli, Franco Arminio lo fa con cautela. Le si avvicina con umiltà, come con le persone, e la osserva con lo sguardo curioso e svagato, dilettantesco e senza tempo, del flâneur, del gentiluomo incantato che si aggira per le vie della città, rimirandone le bellezze.
Una di queste, ad esempio, è la lentezza. La città ha sviluppato negli anni la capacità e l’abilità di fermarsi. Non è stata irretita e travolta dalla globalizzazione, in cui i capitali hanno esteso propaggini negli sviluppi del pensiero. Napoli ha da sempre un suo ritmo e una sua musica.
La nostra città va dunque osservata da vicino, accarezzata con gli occhi, con attenzione e grande cura, giacché la mancanza di sguardo induce inevitabilmente alla mancanza di riguardo.
Lontano dalle occhiate distratte, passive e onnivore di chi attraversa i suoi luoghi restandone indifferente, Franco Arminio ci offre invece una chiave di lettura inedita e particolare.
Più che darci l’ennesimo suggerimento di come dovremmo essere, il paesologo ci indica invece cosa dovremmo fare, regalandoci un contributo fresco e inaspettato, proprio perché concreto. Le sue parole non erano destinate a esaurirsi, infatti, nello spazio astratto di una conversazione interessante, ma ne hanno travalicato i confini, finendo per strada, nella vita reale, in un diverso modo d’essere e percepire, che può trovare spazio in chiunque.
Franco Arminio e Benedetta de Falco
Franco Arminio e Benedetta de Falco

Eleggere un piccolo anfratto della grande metropoli a luogo “proprio” ed esserne devoto, in una nuova forma di religione laica che incrementi l’amore e l’attaccamento alla propria terra.
Non ritenersi conoscitori della propria città, così come della propria regione. È necessaria un’interconnessione tra noi e Napoli e tra Napoli e il resto della regione, e più ancora il resto del sud, per riprendere quel ruolo di raccordo e collegamento che forse anche altri centri del meridione sono ansiosi di ricostruire.
Non darla per scontata, la nostra città, smettere di vederla e cominciare a guardarla, potenziando quell’atteggiamento percettivo che induce all’abbraccio e alla clemenza, poiché a Napoli “il fregio e lo sfregio camminano insieme” e bisogna imparare a coglierli entrambi, in quotidiani “esercizi di ammirazione”, e compassione.
E, infine, andarsene in giro con le tasche piene di ‘grazie’, giacché c’è sempre qualcuno da ringraziare ed è sempre un ottimo metodo per incominciare o proseguire la giornata in una sorta di relazione felice.
Così mentre me ne tornavo a casa, ho iniziato a pensare che in fondo anche la pioggia d’aprile aveva il suo perché, espandendo l’odore della primavera nei vicoli stretti. E guardavo i basoli levigati dal tempo e l’aria decadente, un po’ attempata dei palazzi nelle stradine di Chiaja, coi quei negozi nuovi e luccicanti, che soppiantano memorie di botteghe alimentari e artigiane.
E nel cercare distrattamente le chiavi della macchina, mi sono ritrovata le tasche ingombre, cariche di quei ‘grazie’ ancora inespressi, che avanzavano dalla giornata fiacca, che sembrava appartenere davvero a un’altra epoca.
Un lampo, un pensiero, una decisione.
Li ho raccolti tutti, quei ‘grazie’, e a piene mani li ho lanciati in aria, come coriandoli.
Li ho dedicati a un poeta, paesologo, che viene dall’Irpinia d’Oriente e al ‘mediterraneo interiore’ che questo pomeriggio ci ha dipinto innanzi agli occhi.

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