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Anomalisa. Maschere nude, qualcosa di pirandelliano

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Un Oscar sarebbe stato troppo, o troppo poco, per “Anomalisa”. Troppo poco hollywoodiano, troppo fosforico questo “non film” per sedurre i giurati dell’Academy.

Al tempo stesso, il secondo lavoro registico di Charlie Kaufman pare destinato – come i lavori dei Coen Bros e di Allen – a incontrare il gusto di platee diverse da quella americana, dedita per lo più allo sgranocchiamento del popcorn nelle multisale. Se parevano inattingibili i cupissimi picchi leopardiani di “Synecdoche, New York” – esordio che in Italia soltanto la morte precoce di Philip Seymour Hoffman avrebbe portato nelle sale – questo strano e suggestivo dramma da camera, girato con pupazzi in stop motion nello stile esaltato da Tim Burton, racconta anche quel che non racconta, con toni congrui al narratore che agli esordi aveva escogitato un tunnel per finire nella testa di John Malkovich.

Il protagonista è molto simile al commesso viaggiatore di Miller, accerchiato da uomini e donne che hanno tutti lo stesso sguardo e parlano tutti con la stessa voce, indossando tutti una maschera che ne fa visibili fantocci che sanno di esserlo.

Sprofondato in fondo a una città che non si vede mai, in attesa di tenere una conferenza, l’uomo recluso in hotel tenta inutilmente di riagganciare una vecchia fiamma, nel goffo tentativo di portarla a letto. Fallisce malamente, riuscendo invece nell’intento con una giovane auditrice, convenuta nello stesso albergo e conosciuta per uno scambio di camera. Il corteggiamento è quanto di più sgangherato e malcerto possa darsi, radicalmente intriso di timidezza.

Eppure qualcosa sembra accendersi, tra quei manichini inanimati che nulla fanno per nascondere la loro vuotezza. Il loro destino è quello di tutti, alluso in una foresta di simboli che si fa densa man mano che la piccola storia procede verso un finale che sembra un altro inizio.

Resta un senso di spaesamento e incertezza, tipico della poetica di Kaufman: ogni cosa avrebbe potuto essere un’altra e, forse, lo è davvero.

di Elena Orsini

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