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Angelo Tanese: la salute è un diritto da garantire a tutti

di Mario Masi
Manager pubblico, Angelo Tanese ha gestito la fusione di tre aziende sanitarie nella ASL Roma 1, di cui è Direttore Generale. Laurea in Economia delle Amministrazioni Pubbliche presso la Bocconi e studi presso l’Institut d’Etudes Politiques di Parigi, ha maturato una ventennale esperienza professionale e universitaria sulla gestione del cambiamento organizzativo e nel management sanitario. Con lui abbiamo affrontato importanti temi riguardanti la salute pubblica.
La ASL Roma 1 è il risultato di un percorso di trasformazione in un’unica realtà di tre aziende sanitarie. Dopo questo immane sforzo organizzativo e amministrativo avverte la necessità di una crescita culturale nella percezione della sanità pubblica da parte del cittadino?
Sono dell’idea che per il cittadino non sia molto chiaro ancora “a cosa serve la ASL”. Per i cittadini è importante poter accedere facilmente ai servizi, avere delle esperienze positive nel contatto con gli operatori e le strutture sanitarie, sentirsi “presi in carico” nei casi più complessi. Giustamente a loro interessa poco capire se quel servizio è erogato da questa o quest’altra azienda, se ci sono accorpamenti o fusioni, e aspetti più propriamente organizzativi e amministrativi. Ritengo però necessario che, proprio migliorando la qualità dei servizi che eroghiamo e quindi la credibilità e l’affidabilità delle nostre strutture, si realizzi anche un’operazione di natura più culturale, che faccia crescere la percezione del Servizio Sanitario e delle Aziende Sanitarie pubbliche come un valore e un patrimonio inestimabile per la nostra comunità. La qualità nei livelli di tutela della salute che ci viene riconosciuta anche a livello internazionale non è il frutto del caso, ma della qualità dei nostri professionisti e dell’organizzazione del nostro sistema sanitario universalistico e pubblico.
Mettere insieme tre aziende sanitarie è un’operazione molto complessa sotto tanti profili, ma vorrei che per i nostri residenti la ASL Roma 1 fosse percepita come un riferimento per avere una risposta sempre pronta e qualificata ai bisogni di salute, ed è su questo che stiamo lavorando. La percezione dei cittadini cambia se la loro esperienza reale nella fruizione dei servizi migliora ed entra nel vissuto.
Nel territorio sono presenti presidi ricchi di storia come quello di Santo Spirito in Sassia e Santa Maria della Pietà, con palazzi rinascimentali ospitanti affreschi, collezioni artistiche, giardini e un parco naturale, come viene valorizzato questo grande patrimonio della città? 
Si, è vero, questa è una peculiarità di molte nostre strutture, piene di tradizione, ma si tratta anche di luoghi in cui ancora oggi, a distanza di secoli, si produce salute e assistenza. Per questo siamo impegnati sia sul fronte più propriamente patrimoniale per valorizzare e tutelare il valore artistico e culturale di questi presidi, sia sul recupero di una nuova identità del luogo per i servizi che offre. Nello specifico abbiamo da poco aperto il cantiere per il restauro conservativo delle Corsie Sistine del Complesso Monumentale del Santo Spirito e abbiamo un progetto di valorizzazione della Biblioteca Lancisiana e del Museo dell’Arte Sanitaria, proprio per creare un Polo Museale. Al contempo stiamo portando avanti il nostro progetto di trasformare il Santa Maria della Pietà nel Parco della Salute e del Benessere, come spazio rinnovato e più fruibile per i cittadini. Per fare tutto questo occorrono idee, risorse per investimenti e soprattutto la partecipazione di tutti gli attori istituzionali con cui condividere il percorso. Mettere insieme questi tre elementi, tutti necessari, non è sempre agevole, ma in questi anni abbiamo dimostrato che è possibile.
Cosa può fare la cultura per il sistema sanitario italiano?
Credo che sarebbe importante un dibattito nuovo e diverso sul nostro sistema sanitario italiano, che non si alimenti solo degli episodi di malasanità o di tanti luoghi comuni che alla fine mi sembra banalizzano il tema. Innanzitutto sarebbe bene portare avanti una vera e propria politica di promozione della salute e di corretti stili di vita, perché sappiamo che questo incide moltissimo in termini di prevenzione delle malattie ma anche nella riduzione dei costi dell’assistenza. Inoltre sarebbe bene far capire che grazie a nuovi vaccini, farmaci e tecnologie migliora la qualità della vita nostra e dei nostri figli, ed è proprio per questo che finanziamo con la fiscalità generale il nostro servizio sanitario, perché crediamo che l’accesso alle cure più appropriate sia un diritto da garantire a tutti, come nel caso dell’epatite C o di alcuni tumori per i quali fino a pochi anni fa non avevamo risposte efficaci, che oggi invece possiamo e dobbiamo fornire. Terzo, ripensare la formazione dei medici e degli operatori, ma anche degli stessi manager della sanità, per creare professionisti competenti e consapevoli del proprio ruolo in una società che cambia. La cultura del servizio, dell’organizzazione, della qualità è parte del nostro patrimonio storico, se pensiamo per l’appunto alla tradizione secolare di molti nostri ospedali. Uscire da una retorica vuota o da stereotipi sull’assistenza sanitaria per sviluppare un dibattito ad ampio raggio su come promuovere e produrre salute sia un impegno che dobbiamo portare avanti tutti, incluse le università, gli organi di informazione, le organizzazioni politiche e sindacali.
È possibile raggiungere una reale equità nella salute, per cui le esigenze delle persone guidano la distribuzione delle opportunità di benessere?
È un tema molto ampio e importante. Oggi le disuguaglianze nell’accesso alle cure sono molto forti non solo tra Paesi diversi, ma anche tra zone diverse del nostro Paese, di una stessa Regione o addirittura tra quartieri diversi di una stessa città. Questo però ha a che fare non solo con l’organizzazione dei servizi sanitari, ma anche e soprattutto con aspetti di natura infrastrutturale, come strade e servizi per la mobilità, di natura economica, come il reddito pro capite, e di natura sociale, come i livelli di istruzione, la composizione dei nuclei familiari, etc. C’è un grande dibattito su come misurare e produrre benessere, perché sappiamo bene che il PIL non è un indicatore sufficiente. Ciò che può fare un’azienda sanitaria è sicuramente progettare e erogare servizi che guardano alle persone nella loro interezza, e per fare questo è molto importante la capacità di integrazione con altre istituzioni, come il Comune e i Municipi, la scuola, le associazioni di tutela dei pazienti e di volontariato, insomma tutti i soggetti con cui costruire “reti di servizi” anziché solo prestazioni singole. Su questo non partiamo da zero e abbiamo tante esperienze positive già realizzate e in corso. È giusto che l’equità e la tutela delle persone più fragili siano tra le finalità istituzionali e negli obiettivi concreti di un’azienda pubblica.
Quanto è importante investire in una mediazione interculturale, adottando strategie comunicative capaci di facilitare una relazione terapeutica efficace tra sistema sanitario e paziente appartenenti a contesti culturali diversi?
In una società multietnica la mediazione interculturale diventa una necessità concreta e parte integrante della stessa relazione di cura. Abbiamo molte esperienze significative al riguardo. Penso al nostro Centro Sa.Mi.Fo., che in collaborazione con il Centro Astalli si occupa della salute dei migranti forzati, al lavoro quotidiano svolto da molti nostri operatori all’interno dei consultori, dei Servizi per le dipendenze o all’interno dell’istituto penitenziario di Regina Coeli, e anche all’attenzione che abbiamo posto al rispetto delle identità culturali e religiose all’interno dei nostri ospedali, con un protocollo di intesa – siglato con nove confessioni religiose presenti a Roma – che definisce azioni concrete volte a tutelare il diritto all’assistenza spirituale e religiosa delle persone che si rivolgono alla ASL. Recentissima, infine, la nostra collaborazione con la Fondazione Telecom nel progetto “Ospedale Amico delle Donne Migranti” che si propone di offrire strumenti di aiuto per affrontare la gravidanza e il parto nel modo migliore possibile anche alle donne che non conoscono la nostra lingua. Anche qui ci troviamo di fronte, nella maggior parte dei casi, a interventi nei confronti delle fasce più deboli e talvolta emarginate della società, e credo che il sistema sanitario pubblico debba saper trovare strumenti di comunicazione, di informazione e di inclusione efficaci e personalizzati per raggiungere comunità di stranieri o singoli individui portatori di culture diverse dalla nostra.   
 

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