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La Linea D'ombra – di Pasquale Polidori. A cura di Diletta Borromeo – Macro Asilo , Roma

Lara Ferrara
Domenica 24 febbraio dalle 14 alle 20 al Macro Asilo Stanza delle Parole e Sala Media. Con opere di Luigi Battisti, Andrea Lanini, Maria Teresa Sartori, Bruno Lisi, Francesco Impellizzeri, Cesare Pietroiusti, Silvia Bordini. Interventi: Diletta Borromeo su Congiunzione in Alighiero e Boetti; Ugo Brugnoli su Nome/nomi e disseminazione dell’autore; Beatrice Peria su Limiti e risorse della descrizione verbale dei dipinti; Monica Cristina Storini su Strategie di sopravvivenza e individuazione della scrittura femminile. Infine una performance di canto e poesia con Tomaso Binga e il Minima Vocalia Ensemble: per la prima volta Tomaso Binga si esibisce con un coro! Grazie come sempre al confronto con e alla collaborazione di Federica Santoro, Claudia Melica, Tianyi Xu, Daniele Villa Zorn, Enrico Colantoni, Gabriele Cippitelli.
Definirsi è un lavoro di rappresentazione e contenimento. Equivale a fare di sé un teatro provvisto di una sua organizzazione; spazi che corrispondono a funzioni, e una metratura ragionevolmente percorribile con gli strumenti che si hanno a disposizione: un corpo, una lingua, le cose a portata di mano. Solo che però il teatro è immerso nel buio. Anche riuscire a percepire il bordo del palcoscenico diventa rischioso. Occorre cautela nel passo che si avanza all’interno di questo spazio, da sempre posseduto e sconosciuto, che si vorrebbe ribaltare in un esterno, senza neanche sapere minimamente se siamo dentro o fuori. Sappiamo che la definizione è l’esterno; è un volume che preme contro la recinzione del teatro; la definizione è una stretta di linguaggio, possibile solo quando il linguaggio si manifesta come spazio esterno. Ma il punto è che occorrerebbe stabilire a sé stessi un interno e un esterno. Capire qual è la parete e dove stanno le scalette e le botole; per non parlare del sipario, qualcosa che svanisce al solo pensiero. Se avessimo un’idea di dove cade il sipario, allora il lavoro sarebbe compiuto, e la scena sotto controllo. Una volta fatti tutti gli esercizi elementari appresi alle prime lezioni di movimento: prove di percezione e relazione con lo spazio; caduta a peso morto; oscillazione; chiudersi, spalancarsi, appoggiarsi, rotolarsi. Stare presso una parete; stabilire una relazione con la parete. La relazione poi è perennemente insufficiente e negativa. Il fatto è che la parete è sbagliata; è l’effetto di un’ottica visionaria e proiettiva. Basta cambiare posizione e l’inganno salta alla mente. Eccola, infatti, l’immensa fatica che non garantisce alcun risultato: trattare corpo a corpo con la parete, dopo averla in un primo tempo, e per finta, stabilita. Fare esercizi di presenza ed assenza della parete. Allenarsi a intuirla e provare, mentalmente, a sbatterci contro. Vedere se la materia si modifica dopo il primo tentativo di definizione. Non funziona? Fa pena? Ripetere di nuovo. Non è solo una questione di dimestichezza, ma l’esperienza aiuta. (A volte, una definizione di sé, se è riuscita, lo si capisce molto dopo, e si dice che è troppo tardi). Sforzarsi di sentire la parete senza sfiorarla, con la sola prossimità del corpo. Il corpo non finisce mica dove finisce il corpo. C’è sempre quel volume ulteriore, uno spessore che incontra le superfici senza toccarle. Imparare a sapere di quale corpo si sta parlando; qual è il corpo di sé che dovrebbe calzare la frase definitoria. Si chiama: consapevolezza, volontà, desiderio, paura, senso dell’immagine, decoro, maschera, pelle.
Un pavimento linguistico illuminato e perimetrato, la definizione. Un’utopia, il sé inesistente e ideologico, millimetrato e tirato a lucido nella trasparenza degli spettacoli. Tutti immaginati; in scala morale e teorica. E finalmente, il successo dei sistemi. Le repliche, a quel punto, scontate e quotidiane.
A parte questo, è quasi certo che una definizione di sé è impraticabile. Si muore molto prima, per fortuna.
Info su http://www.lalineadombra.org/it/home/macro-asilo/

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