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Scuola (anche) col digitale o “scuola digitale”?

Come abbiamo scritto nel ‘manifesto’, la scuola che abbiamo in mente dovrebbe avere al centro una continua rielaborazione dei contenuti culturali guidata dall’insegnante, una continua attività dell’intelligenza che faccia della classe una ‘comunità interpretante’.

Di recente, la rivista “La letteratura e noi” ha dedicato grande attenzione al nostro Manifesto per la nuova Scuola: lo ha pubblicato integralmente, poi lo ha commentato con un articolo di Daniele Lo Vetere, che ne approfondisce alcuni aspetti in modo per noi assolutamente condivisibile, e con un altro articolo di Stefano Rossetti, che ne critica alcuni punti. Quelle che seguono sono alcune riflessioni che nascono dalle osservazioni di Rossetti, un’occasione per mettere a fuoco alcune idee e offrire qualche chiarimento.

Che cosa, come è perchè insegnare

Stefano Rossetti, nella sua recensione critica al Manifesto per la nuova Scuola (che riportiamo qui di seguito, insieme all’articolo di Rossetti e a quello di Daniele Lo Vetere), ci pone tra coloro che vorrebbero introdurre un’artificiosa separazione nella didattica: contenuti e scopi del sapere da una parte, metodi e mezzi dall’altra; da questa divisione, secondo Rossetti, deriverebbe il rischio della riduzione della cultura a nozionismo, peccato antico della scuola.

Ora, come abbiamo scritto nel ‘manifesto’, la scuola che abbiamo in mente dovrebbe avere al centro una continua rielaborazione dei contenuti culturali guidata dall’insegnante, una continua attività dell’intelligenza che faccia della classe una ‘comunità interpretante’. Non ci sembra, questa, una difesa del nozionismo.

E proprio sul rifiuto di dare centralità al ‘come’ insegnare, rispetto al ‘che cosa’ e ‘perché, vorremmo sciogliere un equivoco: nessuno ha mai pensato che il come dell’insegnamento sia poco importante, anzi; nella redazione del manifesto abbiamo cercato di sviluppare invece una considerazione che partisse dalla situazione reale che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni nelle nostre scuole: oggi le chiacchiere sul come (e, attenzione, non il come in sé, nella sua concretezza), quelle che formano il cosiddetto didattichese – a partire dall’astratto, cervellotico e pseudo-aziendalistico sistema della “certificazione delle competenze” – stanno togliendo sostanza e importanza a ciò che davvero si insegna e si impara e sempre di più vanno a ricoprire un enorme vuoto educativo e culturale.

È ‘passatismo’ credere che solo l’erotizzazione dei contenuti culturali, quando è autentica, porti a cercare anche il modo migliore per condividerli? Quello che è certo è che ‘erotizzare’ in astratto i metodi di insegnamento, prima ancora di avere qualcosa di importante da comunicare, non porta a nulla. Forse su questo siamo d’accordo con Stefano Rossetti più di quanto non sembri: la nostra intenzione non è quella di separare il che cosa dal come: vogliamo invece che il come sia un atto singolare di cui il docente assume su di sé la responsabilità culturale, e non un “metodo” standardizzato e imposto dall’alto, frutto di ignoranza e conformismo e produttore di burocrazia certificatoria, che non tiene conto degli studenti che si hanno di fronte, della situazione concreta e del progetto culturale, didattico ed educativo che si vuole portare avanti.

Insegnanti o burocrati?

Oggi, nella realtà di tutti i giorni e non in una scuola ideale – ripetiamolo – non possiamo non notare il fatto che la centralità del come (in realtà delle chiacchiere certificatorie sul come) sia diventato il rifugio rassicurante di tutti coloro che non amano la funzione profondamente culturale del proprio lavoro – che può essere portato avanti solo attraverso un continuo ‘corpo a corpo’ con le proprie classi, fondato prima di tutto sulla parola – e interpretano il ruolo dell’insegnante come quello di un solerte impiegato di concetto, che segue metodi predeterminati di insegnamento spesso molto scadenti senza nemmeno sottoporli a revisione critica. La soluzione che prospettiamo – restituire centralità ai contenuti e all’ora di lezione – non è una proposta a sé stante, ma una risposta a un grave problema, quello cioè dell’imposizione agli insegnanti di una progressiva sottomissione conformistica e burocratica, fondata sulla comune ignoranza di legislatori, dirigenti, insegnanti, studenti.

In una scuola nozionistica, saremmo (e spesso siamo) i primi a chiedere una sperimentazione sui mezzi e sui metodi dell’insegnamento; sperimentazione che però da vent’anni a questa parte tende paradossalmente a rovesciarsi in formulette decrepite e in una sclerotizzazione ‘nuovista’: si noti come in qualunque polverosissimo documento ministeriale si parli esclusivamente di “didattica innovativa”, con un automatismo che esclude ogni pensiero, e mai di validità ed efficacia della didattica.

Insegnare e apprendere nell’era del digitale

Il punto centrale su cui si focalizza la critica di Rossetti è la considerazione della sfera ‘digitale’, che a suo dire non deve essere vista come un semplice mezzo che si può decidere di utilizzare o meno, ma deve essere considerata l’orizzonte onnicomprensivo su cui proiettare il rapporto educativo, visto che rappresenta il sistema di valori e di riferimenti in cui vivono le nuove generazioni. Il digitale non è insomma uno strumento o un optional ma è la realtà dei nostri studenti. Rifiutarla o non comprenderne il carattere pervasivo condanna i docenti a rimanere estranei all’orizzonte di senso dei loro alunni. Ogni idea diversa rappresenterebbe il rifugiarsi degli insegnanti in una torre d’avorio a-tecnologica, irreale e consolatoria; anche la considerazione della tecnologia come semplice e strumento, da utilizzare se e quando occorre, rappresenterebbe il tentativo di rifiutare anziché gestire una realtà comunque ineludibile.

Qui però si tocca un punto fondamentale: un insegnante degno di questo nome non può accettare il ricatto di un orizzonte totalitario che spesso viene imposto non da esigenze culturali, educative, umane, ma da esigenze economiche e di mercato, come pure Rossetti non manca di suggerire. Ciò che la scuola deve proporre è cultura: non che quella veicolata da mezzi digitali non possa esserlo, beninteso; ma la sola cultura degna di questo nome è quella che si pone in modo critico rispetto all’esistente, che permette di non darlo per scontato. Dunque, la tecnologia va gestita e utilizzata, certo – nessuna persona di buon senso oggi può affermare il contrario – ma l’accento va messo appunto sulla sua natura strumentale, proprio per uscire dall’orizzonte totalitario che vorrebbe porla come un dato di realtà indiscutibile; per mostrare anche agli studenti che non è l’unico orizzonte possibile. Vale lo stesso discorso che si è fatto per i mezzi e i metodi dell’insegnamento: è fondamentale che l’insegnante possa scegliere i mezzi che utilizza, proprio per piegarli a scopi didattici ed educativi su cui ha l’ultima parola, e non diventare un semplice esecutore, mosso da mani altrui, non necessariamente benevole e attente al futuro delle nuove generazioni. Perché oggi, purtroppo, anche senza entrare nel vasto campo della dipendenza da oggetti tecnologici e delle distorsioni cognitive e affettive derivanti dell’iperconnessione, il pericolo è questo. E il compito della scuola è, nel suo senso più profondo, quello di restituire agli studenti la conoscenza dello spessore storico della realtà, quello cioè che impedisce ogni assolutizzazione del presente e ogni schiacciamento monodimensionale su di esso.

E, infine: non sarà una torre d’avorio, un lusso da raffinati intellettuali anche quello di chi si propone di approcciare gli studenti attraverso un meticciato post moderno e tecnologico – che può essere apprezzato da coloro che sono già passati attraverso una solida istruzione – dimenticando il fatto che i nostri studenti oggi si trovano sulla soglia di un nuovo analfabetismo e in una profonda deprivazione linguistica, conoscitiva e immaginativa, per affrontare la quale occorrerebbe un minuzioso e concreto lavoro artigianale da parte degli insegnanti?

Davvero il digitale è la chiave che apre tutte le porte?

Chiunque abbia un po’ di pratica di rapporto educativo, si accorge del fatto i giovanissimi sono prima di tutto alla disperata e confusa ricerca di adulti che sappiano proporre loro parole che restituiscano un significato all’esperienza, non qualcuno che li insegua sul loro stesso terreno. L’idea, che si affaccia in molti discorsi sulla scuola, che la tecnologia sia l’unica chiave per entrare in rapporto con le nuove generazioni, sembra in realtà un pregiudizio ben poco fondato: i giovanissimi, per loro natura, vivono un forte senso della curiosità e della scoperta, che è difficile spegnere del tutto; proprio per questo non è affatto da escludere che si annoino profondamente a vedersi riportati anche a scuola al proprio mondo, alla propria quotidianità tecnologica, spesso segnata da un sostanziale abbandono a se stessi. Il trovarsi imprigionati adesivamente in un solo orizzonte, in una sorta di confusione senza vie di uscita, lascia nelle persone in crescita un bisogno fortissimo, anche se inespresso, di chiarezza.

Dagli adulti i giovanissimi, anche quando non se ne rendono conto, si aspettano che aprano loro altri mondi, realmente nuovi (dove il nuovo non è tale in senso cronologico, ma è tutto ciò che può aprire spazi nuovi di pensiero), fondati appunto sulla parola, sulla relazione e sulla spinta alla conoscenza, non che confermino i peggiori punti di ripetitività metonimica del presente; d’altra parte, qualunque sguardo critico sul presente, che richiede un punto di vista esterno, quello appunto dell’elaborazione culturale, non può esistere senza uno scarto anche minimo rispetto all’adesione al proprio tempo e alle sue mode.

Persistenza e perseveranza

Il grande buco nero, la grande mancanza per le nuove generazioni, a nostro avviso, è quella della parola e dello scambio intergenerazionale; è la mancanza di adulti che hanno rinunciato al proprio ruolo e alla propria funzione di guida. È rispetto a questo ruolo che la tecnologia è e non può che rimanere, in una scuola degna di questo nome, uno strumento tra gli altri, da utilizzare per motivazioni e finalità culturali, didattiche ed educative sensate e ragionate.

Quella dell’indispensabilità assoluta del digitale (che esclude, per fare due esempi tra i tanti possibili, il ruolo fondamentale delle modalità conoscitive derivanti dalla lettura dei libri o lo sviluppo di importanti abilità attraverso la scrittura a mano), insomma, sembra la tipica profezia autoavverantesi: se ai ragazzini non viene mai proposto altro, non potranno mai volere altro, perché non ne conosceranno l’esistenza. In altre parole, non potranno scegliere. Così come non potranno scegliere gli insegnanti: coloro che dovrebbero essere esempio di indipendenza di giudizio dovrebbero diventare, secondo la volontà di molti, modello di adattamento conformistico all’esistente.

Nell’omonimo racconto di Italo Calvino, il conte di Montecristo per riuscire a fuggire dalla fortezza di If smette di scavare nella roccia e si limita a immaginare la fortezza perfetta, dalla quale è impossibile la fuga. Allora due sono le cose. O la fortezza reale coincide con quella pensata, e allora bisogna arrendersi e rinunciare alla fuga. O esiste un punto in cui la fortezza reale non coincide con quella immaginata: e allora è da lì che bisogna partire per rintracciare una possibilità di fuga. Lo stesso vale per noi: o la realtà è ormai completamente asservita al discorso del capitalista e la digitalizzazione ne è l’estrema – quasi sacrale – incarnazione; o esiste ancora una via di fuga e sta a noi proteggerla e coltivarla giorno per giorno.

di Anna Maria Agresta, Luca Malgioglio, Marina Polacco

https://laletteraturaenoi.it/index.php/scuola_e_noi/1406-i-mezzi,-i-fini,-i-media-perch%C3%A9-non-ho-firmato-il-manifesto-per-la-nuova-scuola.html

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Foto di Gerd Altmann e 14995841 da Pixabay

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