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Dal Grande Reset al Green Reset: intervista a Ilaria Bifarini

L’attuale ideologia ultranichilista che pervade l’Occidente trova piena espressione nella cosiddetta cancel culture, che mira a recidere con furia demolitoria ogni legame con la storia, e nell’ecologismo radicale e fanatico messo in scena dai giovani eco-vandali di Ultima Generazione.

Nel suo nuovo libro Dal Grande Reset al Green Reset” Ilaria Bifarini svela l’architettura di una visione che si fonda su dogmi scientifici, non suscettibili di confutazione. L’uomo non è più custode della natura ma cancro del pianeta. L’ecologismo si trasforma in una ideologia totalizzante, una nuova religione che pone fine all’antropocentrismo.

Pechè una ideologia centrata sulla demonizzazione della civiltà occidentale abbia potuto radicarsi proprio in Occidente? Dove e quando nasce questo nuovo pensiero dominante? Ne parliamo con l’autrice.

Chi vuole resettare il mondo e perchè?

Il progetto di creare una nuova umanità, un nuovo mondo da parte di una cerchia ristretta di individui appartenenti a un gruppo elitario è vecchio quanto il pianeta. Non dovremmo dunque stupirci di quanto sta accadendo oggigiorno, se non fosse che i mezzi a disposizione per attuare questo disegno sono incredibilmente più potenti e deflagranti rispetto al passato. Nonostante il mainstream lo abbia descritto come tale, il Grande Reset di Davos non ha nulla a che vedere con una teoria del complotto, tutt’altro: è un piano preciso, articolato e ufficiale cui le organizzazioni internazionali, i club globalisti come il Forum di Davos stesso e i cosiddetti filantropi, nuovi protagonisti ufficiali della governance mondiale, lavorano da tempo. “Non avrai nulla e sarai felice” è lo slogan che ne racchiude l’essenza.

La pandemia è stata il banco di prova per il biopotere?

La pandemia ha rappresentato un periodo anomalo nella storia dell’umanità, per la prima volta una comunicazione mediatica sensazionalistica e ansiogena, facendo leva sulla paura atavica della morte, ha generato una psicosi di massa. In questa situazione di scarsa lucidità collettiva è stato annunciato il progetto di resettare l’economia e la governance mondiali come un piano millenaristico, capace di redimere l’uomo dai suoi peccati e condurlo alla salvezza.

Da sempre i periodi di crisi collettiva rappresentano delle opportunità preziose per introdurre cambiamenti altrimenti difficili da realizzare: come prevede la teoria della shock economy di Milton Friedman, infatti, «soltanto una crisi – reale o percepita – produce un vero cambiamento. Quando quella crisi si verifica, le azioni intraprese dipendono dalle idee che circolano […] finché il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile».

Prima della pandemia non si era mai osservato un simile accentramento di autorità da parte dei governi, a loro volta espressione di poteri sovranazionali non eletti, come l’OMS. Siamo state vittime di un dispotismo paternalista e onnipervasivo, che rimanda proprio al concetto di biopotere teorizzato dal filosofo francese Foucault, inteso come governo del vivente. È una forma di potere subdolo, che regola il sociale dall’interno, assorbendolo e riarticolandolo: esso non si limita ad assoggettare i corpi attraverso un regime dispotico imposto dall’alto, ma genera soggettività, comportamenti, stili di vita che si innervano profondamente nella nostra essenza e le infondono l’attitudine alla servitù volontaria. A mio parere il periodo pandemico è stato uno degli esperimenti di ingegneria sociale più imponenti della storia dell’umanità.

Ilaria BifariniNel libro sottolinea come si è rovesciato il precetto del vivere secondo natura sostituendolo con una dubbia visione del mondo. Qual è l’obiettivo di questa libido dominandi?

L’attuale ideologia ultranichilista che pervade l’Occidente trova piena espressione nella cosiddetta cancel culture, che mira a recidere con furia demolitoria ogni legame con la storia, e nell’ecologismo radicale e fanatico messo in scena dai giovani eco-vandali di Ultima Generazione.

Alla base c’è una pulsione autodistruttiva, nei confronti della storia, delle proprie radici culturali e della stessa natura. Non è un caso se il neo-ecologismo nomina raramente questo termine, che invece dovrebbe essere il fulcro della propria dottrina: Natura, il regno del caos che si fa incredibilmente ordine, con i suoi limiti e le sue leggi. Si preferisce il concetto più algido e astratto di ambiente, che rimanda a qualcosa di artificiale, quasi costruito. Alla base c’è una pulsione faustiana, secondo cui i pensatori della religione ecologista possono liberarsi dall’eterna sottomissione dell’uomo alla Natura, con le sue regole immutabili e indocili al controllo umano, rovesciando l’antico precetto, stoico ed epicureo, del vivere secondo Natura. I nuovi e capricciosi Prometei rivendicano il potere di piegarla alla propria libido dominandi e a una quantomeno dubbia visione del mondo. Cambiare sesso, inventarne uno nuovo, disconoscere le diversità innate e culturali, abolire le differenze di genere nel linguaggio (lo schwa), sostituire un’alimentazione chimica creata in laboratorio ai cibi naturali, provocare artificialmente fenomeni meteorologici: tutto questo riporta all’inquietudine umana, all’insofferenza nei confronti dei propri limiti, fino a siglare un patto luciferino, dove l’irredimibile senso di colpa atavico viene ceduto, insieme alla propria anima, a uno scientismo fanatico e autodistruttivo.

La scienza sta cedendo il posto alla scientismo grazie alla misantropia camuffata da filantropia. quali sono i protagonisti di questo credo?

Come ricostruisco nel libro, è un’attitudine che si diffonde a partire dalla nascita del Club di Roma, avvenuta nel 1968 per iniziativa dell’imprenditore torinese Aurelio Peccei, grazie ai finanziamenti dell’amico Gianni Agnelli. Il Club incaricò un gruppo di scienziati del MIT (Massachusetts Institute of Technology) affinché vaticinassero sul destino dell’essere umano, avvalendosi della forza derivata dall’aura di autorevolezza propria delle scienze matematiche, della statistica e della cibernetica. Lo scopo dichiarato di tali ricerche era definire senza equivoci i limiti fisici e le costrizioni relative alla moltiplicazione del genere umano e alla sua attività materiale sul nostro pianeta, con l’utilizzo della dinamica dei sistemi.

Il risultato fu il primo rapporto del Club di Roma: pubblicato nel 1972 con il titolo I limiti dello sviluppo (conosciuto anche come rapporto Meadows), divenne un bestseller mondiale tradotto in trenta lingue e scosse l’opinione dei lettori, introducendo a gamba tesa nel dibattito internazionale il tema dell’insostenibilità di una crescita economica e demografica senza limiti. Sulla base di modellizzazioni matematiche veniva così teorizzata la necessità di una crescita zero per fermare l’esaurimento delle risorse naturali e la conseguente crisi ecologica, che avrebbe portato a un collasso. Siamo entrati nello scientismo dogmatico, che non accetta confronti e confutazioni e indirizza le politiche delle organizzazioni internazionali e dei governi nazionali.

Quanto c’è delle teorie di Thomas Malthus nell’ecologismo moderno?

Il richiamo al malthusianesimo da parte del Club di Roma è inequivocabile, nell’opera citata si afferma che l’ostacolo maggiore a una più equa distribuzione delle risorse della Terra è rappresentato dal moltiplicarsi della popolazione. Addirittura nella seconda. Nel secondo rapporto, Strategie per sopravvivere (1974), i toni sono ancora più esasperati del primo, tanto da presentare in esergo la seguente citazione: “Il mondo ha un cancro, e questo cancro è l’uomo”. Per fermare l’aumento della popolazione non basterebbe un controllo demografico, perché anche con due figli a testa i risultati si vedrebbero a distanza di molto tempo, ma interventi più incisivi. Dal Club di Roma si è originato un malthusianesimo inedito e ancora più misantropico: se l’economista scozzese prevedeva infatti solo la finitudine delle risorse materiali come limite alla crescita esponenziale della popolazione, gli “scienziati” moderni hanno introdotto la variabile ecologica.

Dunque, mentre il malthusianesimo classico poteva essere superato con l’innovazione tecnologica e la maggiore produttività, con la successiva rivisitazione in chiave ecologista, l’uomo diventa il principale nemico del Pianeta, in quanto emette CO2 che, secondo la visione della vulgata predominante, sarebbe la causa del cambiamento climatico, sebbene in realtà questo fenomeno sia connaturato alla storia della Terra. Secondo tale logica, dunque, soltanto una decrescita demografica ed economica possono salvarci da un imminente disastro, descritto in termini apocalittici e enfatizzato dal sistema mediatico.

Davvero l’auto elettrica e gli insetti potranno salvare il pianeta?

Difficilmente il Pianeta verrà salvato dagli stessi che lo hanno portato alla rovina, il business dei finti filantropi e delle multinazionali si è già ricollocato in questi nuovi fiorenti settori. Ancora una volta, tutto si focalizza sulla riduzione delle famigerate emissioni di C02, mentre nessun riguardo viene posto per il rispetto della natura, per la cura e la manutenzione del territorio e per contrastare il dissesto idreogeologico. Quanto accaduto in Emilia-Romagna è emblematico: anziché assumersi le responsabilità di un’incuria disastrosa e sciagurata, si preferisce incolpare il famigerato cambiamento climatico di presunta origine antropica, peraltro mai confermato.

di Mario Masi

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