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Le contraddizioni della globalizzazione

di Mariano Colla
Da un interessante rapporto comparso sul giornale inglese “The Guardian” segnalo, testualmente, che “in Indonesia l’insegnamento della lingua inglese nelle scuole primarie ha le ore contate. Fra un anno a scuola si studierà solo la lingua ufficiale, cioè il bahasa indonesia, idioma ormai trascurato dai programmi scolastici. Si punterà, inoltre, anche sulla religione e la cultura, anziché sulle scienze”.
Lo afferma Musliar Kasim ministro della cultura indonesiano, affermando che gli studenti devono dedicare più tempo nel familiarizzare con la lingua del proprio paese.
Gli studenti delle scuole primarie dovranno recuperare una piena padronanza della lingua locale e l’insegnamento della lingua inglese sarà introdotto solo nelle scuole superiori.
L’intervento governativo nasce dal fatto che negli anni è via via diminuito il numero di studenti che hanno superato l’esame in bahasa indonesia, sia per una diffusione dell’idioma britannico nei modelli di svago giovanile, sia per un peggioramento nella qualità dell’insegnamento della lingua locale.
Può sembrare una notizia di poco conto, riguardante, inoltre, un paese lontano, ma, a mio avviso, non è così.
L’Indonesia, infatti, con una popolazione di 238 milioni di abitanti nel 2010, è il quarto paese più popoloso della Terra, oltre ad essere lo Stato a maggiore presenza mussulmana.
E’ certamente uno dei paesi chiave nell’economia del sud est asiatico e, probabilmente, dell’intera area dell’estremo oriente. Ha assorbito, forse prima di altri Stati in quella regione geografica, modelli di sviluppo liberal-capitalistico, emarginando in tempi relativamente brevi, antiche culture e tradizioni.
E allora che sta accadendo? Quali i motivi di un tale, apparente, ripensamento che sembra riportare alla ribalta l’antica anima di quel paese?
Un ripensamento che a mio avviso non è da sottovalutare.
Tante possono essere le ragioni di un tale orientamento, ma tra esse, citerei, tra le più importanti, il desiderio di recuperare una identità nazionale.
L’abbandono totale o parziale dell’insegnamento della lingua inglese nel programma formativo di base delle giovani generazioni a favore di un idioma ad impiego solo locale, unitamente al rinvigorirsi degli indirizzi educativi verso la cultura e la religione proprie del paese asiatico, sottolinea l’affermazione di una tendenza, che è quella di sottrarsi agli invasivi processi omologanti della globalizzazione, causa determinante nello smarrimento di identità storica di molti paesi nel mondo.
Già, la globalizzazione, piovra economica e culturale che nel suo percorso espansivo e fagocitante, ha determinato la progressiva emarginazione delle diversità, delle differenze, alla ricerca di una omologazione culturale, linguistica e di valori quasi a sancire l’unicità del modello liberal-capitalistico.
La lingua inglese è la forma di comunicazione su cui costruire, non tanto e non solo commerci, affari, impresa, ma anche una cultura transnazionale comune, incentrata sugli stessi valori, o disvalori, a seconda di come si voglia intendere la globalizzazione.
Se un linguaggio comune può sensibilmente migliorare la comunicazione tra gli individui, esso, tuttavia, può snaturalizzare il senso di appartenenza alla comunità locali, qualora invada il territorio degli idiomi autoctoni e, tendenzialmente, li sostituisca.
Infatti, limitandoci al nostro paese, non è remota l’idea di formare il nostro paese alla luce dello slogan “internet, impresa, inglese”.
Le lingue nazionali meno diffuse hanno, perciò, ceduto il passo a una omologazione linguistica che ha emarginato tradizioni, usi e costumi locali rappresentati da espressioni radicate nel territorio e portatrici dell’atavica cultura di questo o quel popolo.
Certamente il bahasi indonesia non è una lingua a grande diffusione internazionale, nonostante la parlino 238 milioni di persone e, quindi, la scelta del governo indonesiano sottende, a mio avviso, un principio ben più significativo, ossia la volontà di recuperare l’uso di un idioma la cui scomparsa avrebbe incrinato la cultura e le tradizioni del paese a favore di una spersonalizzazione culturale frutto dell’omologazione.
Il recupero della lingua è anche il ritrovamento della propria identità.
Le grandi narrazioni di ogni paese, la storia, i miti, le religioni, le culture sono intrisi della componente linguistica.
La tecnica non è in grado di produrre una unificazione di valori e comportamenti, non dà senso e, quindi, in un mondo post-ideologico l’unica ricerca di senso la si ritrova in una identità sociale, nel senso di appartenenza, nella comunità.
Per superare il senso di spaesamento delle varie comunità ecco che il ritorno alla propria lingua, alla propria cultura e religione diventa fondamentale.
E’ un desiderio di radicamento, determinato dallo sradicamento in atto.
Nella costituzione dell’individuo non si può non tener conto del contesto storico sociale e culturale in cui si è formato. E’ il contesto linguistico che determina la caratterizzazione dei valori.
La dimensione linguistica è portatrice di un simbolismo profondo.
Se ne accorse lo stesso Wittgenstein che tentò di formulare una costruzione rigorosa del linguaggio a cui tutte le culture avrebbero dovuto uniformarsi.
Era, se vogliamo, una riaffermazione del criterio universale della razionalità.
Ma poi Wittgenstein si rese conto che il modello proposto non dava conto di come le verità venivano enunciate ed esposte nella quotidianità e nel linguaggio comune.
Gli enunciati di verità non hanno valore in riferimento a un modello logico-rigoroso, ma nella pragmatica della comunicazione relativa e contestuale, derivata da un linguaggio originario.
Da ciò Wittgenstein capisce che deve abbandonare la pretesa di una universalità linguistica. Afferma, infatti, che ogni lingua non può essere separata dalle sue componenti costitutive, diverse da popolo a popolo, ossia dalle forme di vita, dalla cultura originaria e ordinaria, dalla dimensione emotiva, passionale, mitica, dai diversi contesti culturali, dai così detti giochi linguistici, tutti elementi che caratterizzano il valore relativo e non assoluto di qualsiasi idioma.
Il linguaggio si pone, quindi, al crocevia tra razionalità ed emozioni.
La lingua inglese, sia per motivi colonialistici che, poi, per motivi prettamente economici, è diventata, e tuttora è, il linguaggio della comunità internazionale che, nella sua dimensione omologante, ha messo in pericolo concezioni identitarie ed etniche che stanno lentamente riemergendo in un nuova visione del mondo e dei suoi valori.
Il linguaggio è intimamente e indissolubilmente connesso al pensiero e all’agire della specie umana
L’orientamento educativo indonesiano può essere un caso isolato, in qualche modo anacronistico, ma, tuttavia, sembra segnare un cambio di tendenza rispetto ai modelli culturali dominanti. Il tempo ci dirà se il nuovo paradigma linguistico-culturale adottato dal paese asiatico è un evento estemporaneo, oppure se delinea l’opportunità, pur nell’ambito della globalizzazione, di valorizzare un principio che, per dirla con il filosofo Marramao, è l’universalità della differenza.

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