di Stefania Taruffi
Palazzo Collicola Arti Visive di Spoleto, inaugura il 15 dicembre alle ore 12,00 il lavoro di CECILIA LUCI, artista romana alla sua prima personale in un’istituzione pubblica italiana. Una mostra che inaugura la Sala S&L come nuovo spazio espositivo del museo, confermando un’attenzione speciale per le nuove generazioni e le evoluzioni contemporanee dei linguaggi storici.
La Luci lavora con il medium fotografico in maniera disciplinata e “orientale”, dando narrazione e intimità diaristica ai cicli progettuali, usando preziose carte fotografiche, elaborando i suoi set in modo pittorico e morandiano. Un’artista classicamente attuale, metodica nel processo elaborativo, complessa nei contenuti simbolici, essenziale e profonda nei soggetti che sceglie e nei mondi che ci racconta. Le ambientazioni delle immagini sono così: liquide come latte silenzioso, mercuriali come scie acquatiche, evanescenti come nebbie compatte. Creano atmosfere dense che avvolgono lo sguardo, riportandolo a una visione ancestrale, istintiva, dentro l’energia fluttuante dei sensi. Gli stadi della materia riempiono i cicli fotografici della Luci, ne determinano temperatura e volumi, codici estetici e contenuti. Tutto scorre tra l’anima del liquido e il corpo del solido, lungo linee gassose che diventano il limbo scenico del suo armamentario ad alta temperatura sensoriale. Non si tratta di feticismo, qui gli oggetti incarnano una simbologia con molteplici derivazioni, frutto di viaggi intellettuali, percorsi psicanalitici, esperienze letterarie, vissuto privato. L’artista sceglie elementi con una forte carica prosaica: un pettine, un guanto da cucina, i bastoncini per lo Shanghai, dei semplici fili, cose esili eppure resistenti, legate ad azioni primarie (curare il corpo, pulire, giocare, collegare…) ma ricche di curve interiori, come se fossero aggregatori emotivi, piccoli diari intimi dove le frasi vengono cucite con pazienza, metodo e concentrazione.
Come si è avvicinata all’arte?
La mia famiglia è stata fondamentale nell’avvicinamento a quello che in un raggio molto vasto si può considerare arte, perché mia mamma era un architetto che ha lavorato per molti anni con Alberto Samonà, figlio di Giuseppe, uno dei più grandi architetti dei primi del Novecento in Italia e mio nonno era un pittore. Io sono dunque nata e cresciuta a stretto contatto con i miei nonni che avevano uno studio a Via Margutta. Ho respirato arte sin da piccola. Ho seguito poi le mie inclinazioni frequentando il liceo artistico che mi ha dato le fondamenta: io sono una pittrice mancata. E quello che oggi realizzo con la fotografia, lo faccio perché avrei voluto realizzarlo con la pittura. Non m’interessa riprodurre una realtà che gli occhi già possono osservare.
Quando è iniziata la passione per la fotografia?
C’è sempre stata, anche se ho intrapreso strade diverse, come la carriera di attrice. Mi è stata regalata una macchina fotografica a 17 anni e ho iniziato subito a ritrarre le donne. Per molti anni ho ritratto figure femminili, fino a quando in un momento di grande crisi personale, ripresi gli studi di fotografia con Daniele Fiore, Riccardo Improta e altri. Da allora non ho mai abbandonato la fotografia.
Dietro le attuali opere s’intravedono studi introspettivi, quasi filosofici. Ce ne parla?
Molto hanno inciso nella mia vita personale e artistica, letture e studi di antroposofia come Rudolf Steiner. Sono da sempre stata alla ricerca della conoscenza della Verità, del senso e del fine ultimo della vita. Decisivo è stato l’incontro con Alejandro Jodorowsky. Ho seguito molti dei suoi seminari tra Roma e Parigi sulla psicogenealogia, sullo sciamanismo e sull’inconscio. Aleandro usava i tarocchi, non per predire, ma in maniera scientifica, osservava il carattere e l’inconscio della persona attraverso la lettura di questi simboli. Da qui il mio grande interesse per la simbologia.
Ho affrontato dunque l’inconscio. E quando intraprendi questo viaggio ti ritrovi con un bagaglio importante, con il quale non sai cosa fare. Quello che mi ha aiutato ad indirizzare la conoscenza acquisita in questo percorso, è stato Bert Hellinger con le sue Costellazioni familiari sistemiche. Per sette anni ho seguito i seminari di Bert, che mi hanno fornito una visione più globale permettendomi di ridecodificare tutta la conoscenza acquisita e di utilizzare l’inconscio e non di subirlo.
Bert Hellinger è uno psicologo che è stato molti anni in Africa e ha studiato a fondo le tribù analizzando le modalità di reintegrazione dell’individuo escluso dal gruppo. Il metodo che utilizza è dunque lo psicodramma. Mette in scena una specie di teatro inconscio attraverso il quale cerca di rimuovere i blocchi dell’individuo e attraverso il gruppo creare uno scambio tra lo spettatore e il gruppo in forte interazione. Da qui la mia attenzione al lavoro con i pupazzetti che Bert fa disporre al paziente per ‘apparecchiare’ la sua problematica, che poi viene da lui analizzata.
Perché lei immerge i suoi ‘esseri’, oggetti nell’acqua?
Utilizzo l’acqua non solo come medium emotivo, ma anche come amico dell’inconscio, perché questa fa affiorare, oppure affonda le cose al di là della nostra volontà. E io stessa nell’osservazione di questi movimenti, divento regista e osservatore, riproducendo dunque lo schema dello psicodramma.
Inoltre vado a lavorare sulle luci e sulle ombre che questi ‘esseri’ immersi nell’acqua producono. Azzardando un parallelo con gli esseri umani, si può ogni volta notare come ogni essere sia unico (Progetti di riferimento: “Lessico Animico” “Costellazioni”). L’acqua riporta anche al passato, alla madre. Io l’ho persa a 21 anni.
Spesso gli oggetti immersi provengono dal passato: il pettine di mio nonno rappresenta la ghigliottina; la lente d’ingrandimento di mia nonna osserva le mie gabbie e forse rappresenta il mio occhio che ha distorto alcune cose e che utilizzo per entrare nella realtà, modificandola.
L’acqua è lo strumento attraverso il quale pongo l’attenzione sul dettaglio, per attirare lo sguardo dell’osservatore proprio su quel dettaglio emotivo.
C’è anche un lavoro realizzato attraverso il latte?
Il lavoro ‘Milk’ è ispirato dalla pittura giapponese, molto elegante e mi ricorda l’incontro con la maternità, quindi con mia madre. Quello è un lavoro più estetico che nasconde una ricerca della perfezione, della bellezza, delicatezza che fanno parte del mio essere e che però devono rispecchiare soprattutto l’interiorità, non solo l’esteriorità.
Credo fermamente che uno dei compiti morali e ideologici di un artista sia quello di essere portatore di valori di gentilezza ed eleganza, in senso positivo.
Scrive Giovanni Intra Sidola: “Nelle opere di Cecilia Luci la comunicazione del contenuto avviene per mezzo di un linguaggio formalmente raffinato ed attraente, che porta l’osservatore ad addentrarsi nel discorso, a leggere l’esperienza dell’artista e a riconoscersi in essa. Ciò avviene anche perché l’artista sceglie come soggetti degli oggetti propri della quotidianità, che appartengono inconsciamente alla personale memoria emotiva. Questi oggetti, una volta decontestualizzati, assumono un significato preciso nella riflessione dell’artista sul suo passato. In veste di “attori” chiamati ad interpretare un ruolo sul palcoscenico, essi dismettono i panni quotidiani per diventare protagonisti di una storia. Un palcoscenico spesso liquido: gli oggetti immersi in un fluido portatore emotivo, che muove e ridefinisce le situazioni, trovano il giusto posto che dà loro valore e senso. Cecilia Luci ricostruisce, così, un mondo immaginifico fatto di elementi tratti dal passato. In Lessico Animico, ad esempio, l’acqua è il medium attraverso il quale si manifesta l’essenza delle cose, l’intima verità unica e irripetibile di ciascuna anima. In Milk il latte, meno incorporeo dell’acqua e più materno, è densa superficie in movimento che a volte fluisce, a volte s’acquieta, nascondendo e manifestando a tratti ciò che permane. In Dal passato, invece, l’assenza del medium emotivo riporta all’esigenza di placare le emozioni lasciando posto all’osservazione vagliata dalla ragione. Il tutto veicolato da una ricerca della perfezione estetica che, lungi dall’essere un eccesso formalista, è misura della profonda meditazione sull’essere che sottende a tutti i lavori dell’artista. In altri lavori (per esempio, Costellazioni Familiari) l’ispirazione deriva dall’osservazione dei campi morfologici individuali e familiari, collettivi e appartenenti alla società tutta, a partire dagli studi portati avanti dall’artista con Bert Hellinger. Attraverso il campo morfologico emergono il vissuto inconscio e le dinamiche relazionali di ognuno di noi rispetto alle varie circostanze”.
Cecilia Luci così descrive il suo lavoro: ”La ricerca nel mio lavoro tende al superamento del mio passato, facendo riaffiorare inconsci ricordi. Il vissuto viene trasportato dai fluidi che a volte affondano, a volte fanno affiorare le cose ed i personaggi attraverso dei flash, apparizioni divisioni scaturite nella mente. Trasmuto e ricostruisco un mondo immaginifico fatto di elementi tratti dalla memoria. Cosi questo mio costante ritorno al passato e ad un ripristino, mi fa rivisitare e ridisporre fatti, cose e persone, legate a luoghi interiori familiari, metabolizzate attraverso diversi codici semantici. L’evoluzione dell’arte di questa grande artista, Cecilia Luci, ha dunque attraversato il silenzio nella meditazione. Per molti anni si è fermata, ha creato il vuoto, ha toccato la solitudine per toccare se stessa e si è guardata dentro, andando a fondo. Ha azzittito le molteplici voci che la circondavano, i colori delle donne, un passato ingombrante, le ombre e luci del presente per poi immergere tutto in un liquido trasparente in un processo di forte autoanalisi introspettiva, in un contesto allargato di umanità. Cosa che l’ha aiutata ad avere una ‘visione’ del particolare, di se stessa, ma anche del ‘tutto’.
L’evoluzione dell’arte di quest’artista così introspettiva e profonda, Cecilia Luci, ha dunque attraversato il silenzio nella meditazione. Per molti anni si è fermata, ha creato il vuoto, ha toccato la solitudine per toccare se stessa: si è guardata dentro, andando a fondo. Ha azzittito le molteplici voci che la circondavano, i colori delle donne, un passato ingombrante, le ombre e luci del presente per poi immergere tutto in un liquido trasparente in un processo di forte autoanalisi introspettiva, in un contesto allargato di umanità. Cosa che l’ha aiutata ad avere una ‘visione’ del particolare, di se stessa, ma anche del ‘tutto’. In un panorama di arte mediocre e senza contenuti, alcuni giovani emergenti, come Cecilia, riescono ad andare ‘oltre’, dando un alto valore etico e interiore alla propria creatività e mettendola al servizio delle anime.
Mostra: “Gravità” di Cecilia Luci
a cura di Gianluca Marziani
Palazzo Collicola Arti Visive- Piazza Collicola, 1 Spoleto
www.palazzocollicola.it