di Mariano Colla
In un contesto mediatico che, deplorevolmente, dedica troppo tempo e mezzi a Ruby, al Bunga Bunga, a una volgarità diffusa, non si può non apprezzare l’iniziativa promossa dall’assessorato alle politiche culturali di Roma presso “La Casa dei Teatri”, che, nella splendida cornice di Villa Doria Panfilj, mette in scena una “pièce teatrale” dai contenuti suggestivi: “La banalità dell’amore”, di Savyon Liebrecht, dialoghi amorosi e intellettuali tra Martin Heidegger e Hannah Arendt.
Parafrasando il titolo del famoso saggio della Arendt, “La banalità del male”, testo in cui la filosofa tedesca, testimone al processo di Gerusalemme contro il criminale nazista Eichmann, prende coscienza di come il male, anche nelle sue forme più efferate, può svilupparsi in dimensioni moralmente banali, la Liebrecht racconta la relazione proibita fra la diciottenne Hannah Arendt, studentessa di filosofia all’università di Marburgo, e il suo docente professor Heidegger, sposato e di parecchi anni più anziano di lei. E’ una storia che, in varie forme, copre mezzo secolo, incorporando le gioie e i drammi dei due protagonisti.
Alle voci degli attori Alessandra di Lernia e Graziano Piazza viene lasciato il difficile compito di interpretare alcuni brani dell’intenso dialogo tra i due filosofi, dialogo ricco, profondo ed emozionante, proprio delle complesse personalità dei personaggi coinvolti. Il testo si articola in due parti. La prima parte si svolge nel ‘75 a New York, nell’appartamento dove vive la quasi settantenne filosofa ebrea.
La seconda parte si articola in una serie di flash back, dal 1924, quando la relazione ha inizio nella baita di montagna di Raphael Mendelssohn, compagno di studi di Hannah, al 1950, con l’ultimo incontro tra i due protagonisti che la vita e le vicissitudini della guerra hanno profondamente cambiato. Questa parte costituisce il nucleo più intenso ed emozionante del lavoro della Liebrecht. Nei dialoghi tra Martin e Hannah emerge il travaglio di una storia d’amore impossibile, irrazionale e drammatica, ma al contempo ricca di momenti di dolcezza e di tenero trasporto.
La recitazione si apre con una intervista che un certo Michael Ben Shaked, giovane israeliano, apparentemente studente di filosofia dell’università di Gerusalemme, ma, in realtà, figlio di Raphael Mendelssohn, intende organizzare con la Arendt. Ben Shaked è venuto a cercarla dopo la morte del padre, per scoprire una parte della vita del genitore a lui ignota e per approfondire la figura di Hannah. L’intervista la rende inquieta, non sa come vestirsi, parla confusamente al telefono con un’ amica, teme soprattutto il confronto con il passato, ma sente la necessità di giustificarsi o, meglio, di spiegare al mondo ebraico la sua posizione contro il sionismo, manifestata nel libro “La banalità del male”, posizione per la quale è boicottata dalla cultura ebraica. L’intervista inizia e la Harendt difende le sue idee con calore e veemenza.
Il riferimento ad Heidegger, evocato dall’intervistatore, viene prontamente rigettato dalla Arendt, ma, a questo punto, la pièce vira nel lontano 1924, quando alla porta della baita di Raphael, momentaneamente assente, appare, di fronte alla imbarazzata studentessa, la sagoma del professore. La relazione tra la Arendt e Heidegger nasce, quindi, in una Germania agli albori del dramma epocale della dittatura nazista. I testi si rifanno al carteggio intercorso tra Hannah e Martin e rispecchiano i toni appassionati, ma anche formali, dettati da un’epoca in cui l’emozione e i sentimenti erano soggetti alle costrizioni delle convenzioni sociali.
La giovane diciottenne è profondamente turbata dall’incontro con l’ormai famoso filosofo che, da poco, ha pubblicato “Essere e Tempo”. Quasi si percepiscono i rossori sul volto della studentessa, timida e impacciata, di fronte al professore che si porge, pur giovane, in tutta la sua solennità, mascherando ogni possibile emozione o turbamento interiore. Il dialogo, che inizialmente si dipana in argomentazioni filosofiche, si priva, lentamente, dei contenuti intellettuali, degli ammiccamenti celati, per sciogliersi in un vocabolario più tenero, più dolce, anche se ancora trattenuto dalla formalità e dalla tradizione. Heidegger è sposato, ha due figli e una moglie antisemita. La Arendt lo sa, il rapporto con il professore richiede cautela, segretezza, discrezione ma Hannah, pur giovane, ha la maturità per assicurare Martin, preoccupato della sua posizione sociale, che mai lo tradirà. Promesse che vengono scambiate con compostezza, pur nella consapevolezza dell’intensità della passione.
Heidegger le dice: per la prima volta ho la sensazione di aver incontrato una persona con cui ho affinità di pensieri e di sentimenti, una donna alla quale posso confidare i miei segreti, e che mi salverà dalla solitudine che nessuno vede. Faremo solo ciò che ci farà sentire fedeli a noi stessi”.
“Il nostro amore è la benedizione della mia vita e se c’è un Dio, ti amerò ancor di più dopo la morte”, risponde lei.
Ragione e sentimento si intrecciano in un amplesso fatale, vigoroso, intenso, profondo. E’ un amore clandestino, che incorpora le emozioni della trasgressione, e di tale stato si arricchisce il linguaggio, armonico, puro. Heidegger abbandona la veste professorale, il formalismo familiare e scioglie le sue rigidità negli amplessi e nelle cure della giovane allieva. Ne emerge un quadro poetico che dovrà, tuttavia, ben presto incontrare le prime difficoltà. Il contrasto tra i due amanti si fa più teso via via che ci si avvicina al periodo delle grandi scelte, nel periodo tra il 29 e il 33. Grandi scelte che, per Heidegger, sono dominate dalle ambizioni proprie e della moglie, ma, soprattutto, dalla convinzione che il nazismo rappresenti il giusto veicolo per ridare alla Germania, dignità, forza, prospettiva e autenticità.
Ad Hannah, che manifesta le sue preoccupazioni, da ebrea, nei confronti del nazionalsocialismo, Martin, pomposamente, risponde: “Hitler infonderà nuova vita al grande spirito tedesco e ci concederà l’opportunità di una nuova alba che ci porterà alla nostra autenticità. E’ un uomo forte, in grado di condurci al nostro ruolo storico e di valorizzare la nostra cultura che non ha rivali al mondo. La lotta agli ebrei è un espediente per ottenere più voti”.
Si delinea, a livello ideologico e, forse, morale, una frattura insanabile. Per la Arendt, ebrea, che nel frattempo, su sollecitazione di Heidegger, si è trasferita da Marburgo a Heidelberg per il dottorato con Jaspers, più di una grande scelta si tratta di una disperata difesa della sua esistenza, del suo mondo, dei suoi amici e familiari. Nel 1933 Heidegger viene nominato dai Nazisti rettore dell’università di Friburgo. La Arendt fugge in Francia. La voce dei due attori risuona vibrante nel piccolo spazio teatrale, stentorea quella di lui, che pronuncia la sua prolusione agli studenti per celebrare la carica di rettore, accorata quella di lei che, invano, gli scrive e gli chiede aiuto, che inutilmente lo mette in guardia dal disegno mostruoso che lui, proprio lui, così amato e venerato, sta avallando, volutamente o inconsapevolmente ignaro del nefasto progetto hitleriano.
Alla caduta di Hitler, Heidegger e la Arendt torneranno a vedersi. Ma lo spirito è cambiato. Il legame è ambiguo, opportunista. Il professore, accusato di collaborazionismo, viene esautorato da ogni funzione pubblica. Chiederà l’aiuto della filosofa, che da anni vive a New York, per uscire dall’isolamento. Si incontreranno in Germania il 7 febbraio del ’50. E’ un momento intriso di sentimenti sopiti, l’antico amore non sembra più emergere. Lui ammetterà la colpa del proprio silenzio, non verso gli ebrei, ma nei confronti della sua amata.
La pièce della Liebrecht finisce così, con la Arendt ancora protesa verso il suo vecchio maestro, non si sa se per i residui di una esaltazione giovanile, e lui, ormai anziano e profondamente segnato dal fallimento della sua ideologia di una Germania autentica.
“Hitler infonderà nuova vita al grande spirito tedesco e ci concederà l’opportunità di una nuova alba che ci porterà alla nostra autenticità. E’ un uomo forte, in grado di condurci al nostro ruolo storico e di valorizzare la nostra cultura che non ha rivali al mondo. La lotta agli ebrei è un espediente per ottenere più voti”.
Non è assurdo che il sostenitore di una tesi tanto aberrante, che mai ritrattò, sia diventato un pilastro della filosofia occidentale e un mito di tanta sinistra? L’esistenzialismo è figlio del nazismo storico e padre di quello serpeggiante oggi.
Sulla questione “Heidegger e il nazismo” mi permetto di segnalare il Libro bianco pubblicato da eudia.org e accesibile online all’indirizzo: http://www.eudia.org/index.php/libro-bianco
Un cordiale saluto
mborghi@eudia.org