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Sinestesie indiane di un viaggiatore d'affari

di Massimiliano Giacomelli

Sadiq mi guarda fisso con i suoi occhi sgranati, di taglio lievemente mongolo, il cranio calvo e un ghigno beffardo che ricorda Yul Brynner in Taras Bulba. E in effetti a Yul Brynner assomiglia davvero, non fosse il colore della pelle, scuro come quello degli indiani dello stato del Karnataka. Siamo a Bangalore, metropoli d’altura di 4 milioni di abitanti, da sempre la piu’ liberale e sviluppata information technology.

Bangalore, mercato dei fiori

Marco ha avuto la cattiva idea di nominare il “paan” durante il nostro pranzo in un ristorante alla buona della prima periferia della citta’. Il nome è altisonante: “Empire Hotel”. Dentro invece si mangiano solo specialità Tandoori. E solo con le mani. Ne siamo appena usciti. Abbiamo lasciato l’odore intenso di fumo d’arrosto, brace e spezie che però rimane addosso ai pashmina delle donne e ci accompagna per alcuni metri fino ad una bancarella sgangherata dove servono il “paan”. In venti anni di India Marco non ha mai compiuto l’azzardo di provarlo. Nemmeno nelle sue fughe in Rajastan, o in Kashmir, oppure nelle strade sporche di Mumbai (la vecchia Bombay), o fra gli ultimi della terra a Benares. Mai. Doveva aspettare oggi, si vede, per compiere il grande passo. Poco male se avesse deciso di farlo da solo.  Invece mi ha voluto coinvolgere. “Pensa al fatturato” – mi dice sogghignando. In effetti, abbiamo appena stipulato una joint venture con il nostro distributore e non possiamo offenderlo tirandoci indietro. Appena nominato, Sadiq ci dice che ce lo avrebbe fatto assaggiare volentieri dopo pranzo.

Il paan è una pallottola a base di foglia di Betel, nella quale vengono avvolte spezie, fiori, l’areca (una specie di noce moscata ma di gusto molto più intenso), la calce (si, avete capito bene, quella) e diversi tipi di tabacco. E’ la sigaretta degli ultimi, è il vizio dei milioni di senza niente che popolano il subcontinente indiano. Crea dipendenza e lascia un rosso perenne sulla lingua e sulle labbra di chi la consuma. Ce ne sono due versioni: una, con il tabacco, che si mastica e poi si sputa per terra lasciando memorabili chiazze rosse sul selciato;  l’altra, un po’ da fighette invero, che al posto del tabacco contiene una bacca dal sapore molto simile all’angostura. Questa invece la puoi mangiare. Entrambe però sono altamente cancerogene. Entrambe, secondo la credenza indu’, favoriscono la potenza sessuale. Della serie: muori di cancro ma prima ti diverti un casino! Quando la metti in bocca e cominci a masticarla è come assaggiare in ordine sparso una manciata di terra appena bagnata dalla pioggia estiva, una foglia di vite con dello zucchero caramellato, dei petali di rose e due filtri di Marlboro light. La bacca rossa al sapore d’angostura rende a malapena sopportabile il mix. Inghiotto davanti allo sguardo compiaciuto di Sadiq.

E’ fatta. Adesso possiamo tornare in ufficio. L’ufficio di Sadiq e il quartier generale della società nostra alleata è quanto di più tecnologico possa esserci in un ambiente di lavoro. L’India è anche questo. Anzi, da quando nel 1991 si è aperta al mondo e all’abbraccio capitalistico dell’Occidente, l’India è soprattutto questo. Una terra sospesa fra internet e i bagni purificatori nel Gange, dove bambini di otto o nove anni vengono venduti dai genitori alla mafia dell’accattonaggio che provvede ad amputargli braccia o mani per renderli più adatti all’elemosina. Una terra dove Cisco, la multinazionale americana del software, apre nel giro di pochi mesi una filiale con 5,000 posti lavoro perché “l’alfabetizzazione elettronica che si ha in India e il talento che l’accompagna non ha pari al mondo”.

Per tornare all’ufficio passiamo dai marciapiedi divelti di Cunningham Street, dove con noi “passeggiano” anche un paio di mucche. Arriviamo all’incrocio che da Cunnigham Street porta al viale del Viadhana Sudha – il parlamento dello Stato del Karnataka. Costruito in stile coloniale negli anni ’50, quando gli Inglesi peraltro se ne erano già andati, è un edificio che a Firenze occuperebbe minimo un paio di quartieri. Di un bianco sfolgorante,  è circondato da un parco verde e immenso molto ordinato. Il profumo dolciastro della vegetazione si mischia al tanfo avvilente dei tubi di scappamento degli “auto-rickshaw”, i mini taxi che popolano le strade della citta’.

Un bambino  ci segue con la mano aperta per circa un chilometro, attraversando la strada con noi e bloccando i motorini irrequieti pronti a falciarci allo scatto del verde. Sadiq ci dice di non considerarlo, per non incoraggiare l’accattonaggio. Obbediamo a malincuore. Arriviamo al grande “Forum Mall”, incontriamo sul marciapiede un’altra vacca intenta nei suoi bisogni e un vecchio magrissimo che l’accarezza guardando nel vuoto. Il “Forum Mall” è un altro mondo. Versace, Armani, Zegna, Gucci, Cavalli, sembra di essere in Via Tornabuoni, a casa, a Firenze. “Il Mall è vuoto – dice Sadiq -, Bangalore non è ancora Dubai, la gente che può permettersi di comprare questa roba è poca, ma tempo 5 anni sarà pieno. I grandi brand internazionali possono permettersi di investire e aspettare”. Vero. Prendiamo un espresso al ristorante italiano.  E’ buono. Resta tuttavia in bocca il retrogusto violento del paan. Resterà per il resto della serata. Uscendo dal Mall per andare in ufficio notiamo di nuovo il vecchio sul marciapiede lisciare la sua mucca continuando a guardare nel vuoto. Ha l’Occidente davanti ma non se ne cura.

Foto di akash in licenza CC Attribuzione Condividi allo stesso modo

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