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"La nostra vita" di Luchetti, recensione in contrappunto

Di David Spiegelman

Quando il personaggio di Raoul Bova, trafficando ai fornelli, prende a declamare le varianti tuberose ben note ai genovesi, dalla “quarantina” alla “Torriglia”, per la prima volta nello spettatore accorto si è fatto strada un retropensiero nuovo nuovo: chissà come sarebbe piaciuto questo film al professor Sanguineti.

Ci voleva infatti il coraggio civile di Daniele Luchetti, un regista recalcitrante all’idea di cinema come intrattenimento, per raccontare una storia policentrica e crudele, dall’ambizioso eppure sincero titolo “La nostra vita”, solo remotamente evocativa di una canzone di Vasco Rossi che fa da bussola al protagonista.
Come in “Mio fratello è figlio unico”, Elio Germano porta la sua espressività sgomenta attraverso una vicenda che vede in un lutto familiare il motore di un degrado personale: da padre e marito, un operaio edile trentenne si trova a riempire ferocemente il vuoto lasciato dalla moglie – Isabella Ragonese, fugace quanto potente presenza – morta partorendo il terzogenito, reinventandosi capocantiere subappaltatore sulla base del prezzo sporco di un ricatto: trenta denari il cui peso graverà sul futuro anteriore del praticante “imprenditore di se stesso”, che si scopre vene di cinismo e avidità impensabili nel giocoso proemio.
La natura umana, la “nostra vita” appunto, contiene un elemento distruttivo e autodistruttivo, pare alludere il regista, rappresentando la discesa all’inferno del protagonista, nella vita dei cantieri che diventa una variante neorealista delle carceri piranesiane, in una periferia romana riconoscibile soltanto dall’esasperazione linguistica delle figure autoctone, che spiccano per automatismo rispetto alla poliglossia spezzata della forza lavoro.

 Nel frattempo, la crisolatria del protagonista si contrappone all’assenza di speranza dei suoi sottoposti, secondo un linguaggio che coniuga i moduli del neorealismo ai movimenti di macchina nervosi e sincopati che richiamano il miglior von Trier e i fratelli Dardenne. Ecco dove il professor Sanguineti avrebbe potuto sottolineare: quando tra merce e uomini l’osmosi diventa inerziale, necessaria, ecco che il capitalismo divora se stesso.
Ma Luchetti non muove in assoluto una critica al capitalismo, e nemmeno all’auri sacra fames che non è certo un’invenzione del nostro pur desolato tempo: piuttosto traccia una carta geografica delle diseguaglianze, secondo un’attribuzione etnica che è forse il segno di maggiore fragilità di una sceneggiatura compatta, senza acuti ma nemmeno cadute, in pieno rispondente al collaudato stile di Stefano Rulli e Sandro Petraglia, collaboratori di Luchetti fin dal fortunatissimo e forse schiacciante ormai lontano semiesordio de “Il Portaborse”.
Se quella pellicola anticipò l’implosione di un sistema viziato di gestione della cosa pubblica, “La nostra vita” illumina le contraddizioni di un’epoca dove sei in quanto e per quanto hai; in cui la morte, se altrui s’intende, scade a contrattempo del tutto superabile. Il tutto sotto le stelle maledette del denaro, che da strumento diventa padrone e quindi tiranno, evoluzione esemplificata dal sordido personaggio, uno spacciatore usuraio che convive con una prostituta senegalese, ex ma forse no, affidato quasi in chiave espiatoria a un irriconoscibile Luca Zingaretti, ridotto in carrozzella con una parrucca da portiere argentino anni Settanta.
E’ un mondo, quello raffigurato da Luchetti, in cui l’unica solidarietà possibile pare quella di un utilitarismo sotto la cui patina traspare il solito sfruttamento, canone classico della critica anticapitalista alla società industriale.

Per questo il film corre verso un paradosso comprensibile soltanto a chi ne segua con attenzione gli snodi: il lieto fine, così almeno sembra, non consola ma delude, perché nell’attenuarsi e quindi nel frenare dell’inesorabile marcia verso la perdizione, la cattiveria di taglio quasi documentaristico delle sequenze più forti perde smalto. Ci si aspetterebbe, insomma, la fissazione di un punto di non ritorno che invece non arriva, per quanto la costruzione drammaturgica resti compiuta.
I film a volte però sono come i tappeti mediorientali; quel che conta è l’ordito, che resta invisibile e complesso. Non ci si può così non interrogare sulla circostanza che vede in scena, nel ruolo della cognata del protagonista, Stefania Montorsi, l’attrice che nella vita reale è stata la moglie del regista e dal quale si è di recente separata, annunciando il fatto con un’intervista al settimanale femminile del “Corriere della Sera”.

Diventa così suggestivo, per quanto probabilmente assai erroneo, leggere questo film come un’apparente eccentrica digressione alla Rohmer, autore molto caro a Luchetti, sul tema delle conseguenze del disamore e degli effetti collaterali del crollo, fortuito o meno, dell’armonia familiare. Non sarebbe la prima volta che un’opera sfugge alle intenzioni consapevoli dell’autore, per diventare nel subconscio radicalmente altra. Uno dei bambini del personaggio Montorsi è il vero figlio decenne dell’attrice e del regista; e nel film si chiama Federico, il suo vero nome.

 Così l’epilogo quasi festoso si presta a una lettura sottotraccia, che attinge il registro elegiaco. E induce lo spettatore a capire che non si trattava di un lieto fine.

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