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Mark Twain, dopo cent'anni l'autobiografia inedita

Di David Spiegelman
L’idea di persistere nel tempo presiede a ogni forma d’arte e quindi alla letteratura, «certezza che la vita non basti». Sopravviene pertanto negli inagiati affittuari di questo povero presente un indefinito patema per l’arrivo dall’oceano del tempo di un remoto e ingegnoso cartiglio, custodito per un secolo esatto nella bottiglia soffiata e chiusa da Mark Twain, l’uomo che dandosi un nome d’invenzione aveva preso per primo a tracciare una possibile autobiografia altrui, quella dell’America.
Nel secondo Ottocento, casa della vita dello scrittore, gli Stati Uniti erano ancora un punto interrogativo, una “High Hope”, un compendio del mondo conosciuto popolato da esuli o avventurieri o conquistatori, in arrivo da un’Europa prossima a incendiarsi. Twain ne raccontò le fertili contraddizioni, l’incandescenza sociale destinata a cristallizzarsi in un polo magnetico più forte dei due planetari: tracciando un credibile lunario di un’epoca ancora da avverarsi.
Tom Sawyer e Huck Finn sono stati il primo vero «amico americano» per le generazioni rimaste dall’altra parte dell’Atlantico, a vedere via via sfumare una primogenitura declinata in vassallaggio culturale, fino alla sconsolata presa d’atto – nella rassegnata definizione di Wenders – di una «colonizzazione dell’inconscio» gradualmente perpetrata dal giorno dello sbarco del Mayflower.
Desta perciò una non minima emozione apprestarsi a sfogliare il libro che Twain volle tener nascosto per cent’anni esatti, disponendo che gli eredi lo affidassero alla Berkeley University: la storia di se stesso, narrata in cinquemila pagine, romanzo perfetto e quindi incompleto perché privo del punto di vista ulteriore dell’autore.
Suona sinistro, e forse prossimo a una remota melanconia, lo sbarco nel presente di questo testamento, dovuto in parte all’utopia dell’immortalità propria degli artisti, in parte all’estremo guizzo di un inarrivabile umorista divenuto negli anni disincantato censore. E’ come se l’America stessa, nel momento in cui molti segnali ne indicano una prossima abdicazione da quel ruolo di regina del mondo conosciuto svolto ora con sbrigativa tracotanza, ora con spartachista fatica, ora con infantile entusiasmo, decidesse di rileggere la propria storia attraverso la confessione del suo primario biografo.
Se il Novecento è stato indubitabilmente il “Secolo Americano”, sono bastati pochi primi scampoli del nuovo Millennio per attenuare la luce della Fiaccola di Long Island, assimilando New York più alla Bisanzio in attesa dei barbari che alla Roma augustea.
Lo scrigno dei segreti di Twain, in ossequio al suo volere, si aprirà in California a novembre, con la pubblicazione del primo dei tre volumi: avrà il cupo fascino dei fenomeni di fisica stellare che sconfinano nell’escatologia, ovvero gli astri perduti nella profondità dell’infinito che, per quanto spente nella funzione termonucleare, sussistono ancora nell’irradiazione di una luminosità ormai orfana, lanciata nello spazio a velocità insondabile.
Contano poco pertanto nella sostanza i giudizi e le confessioni di Twain il quale, come molti uomini di parole su carta, visse la vita reale secondo una percentuale intensamente inferiore a quella delle sue elaborazioni letterarie. Il vero valore di questo messaggio, in arrivo dal confine tra la centuria del progresso e della macchina a vapore e quella della fissione dell’uranio, sta nella stessa conservazione di una voce per mezzo della parola scritta. Tutto è redatto su sabbia di battigia, continuamente scancellata dall’andirivieni delle onde, soltanto le parole possono disporre il riscatto di se stesse diventando cose.
L’America di oggi è un gigante triste, preoccupato non tanto di evitare quanto di gestire il meno traumaticamente possibile il declino del suo impero, parallelo e quindi consustanziale a quello del Vecchio Mondo, insidiato ormai in maniera plastica dall’aggressività del Vicino e Remoto Levante.
Il Missisippi continua a scorrere, nell’America reale come nelle pagine di Twain, ma la sua sorgente è prossima a inaridirsi.
Cent’anni erano parsi forse misura eccessiva, allo scrittore, per segnare una misura epocale tra la sua presenza e un domani del tutto diverso. Invece i tormenti e i triboli di allora, negli Stati Uniti come nel resto della terra, sono esattamente gli stessi di oggi, aggiornati e aggravati soltanto su un piano banalmente tecnologico, ovvero secondo un progresso che non rappresenta un’autentica evoluzione.
Tra le indiscrezioni finora evidenziate, nello smisurato inventario dell’esistenza dello scrittore, figurano gli inevitabili interrogativi pessimistici sulla presenza e sulla natura di una volontà creatrice, voce dietro la scena di un mondo difficile da capire e da accettare. Twain, come tutti, convisse con questo dubbio e cent’anni fa ebbe modo di risolverlo attraversando lo specchio. Ma non aveva ancora finito di scrivere, perché non avrebbe voluto arrivare mai a un finale che non trovava.
Come in ogni libro riuscito, tutto quel che conta si legge dopo l’ultima pagina.
Foto di dnhoshor in licenza CC Attribuzione, Condividi allo stesso modo

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