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Salone del Libro. Eco e il 'maledetto' nome della rosa

di David Spiegelmanumberto eco

Gino Paoli non ne poteva più di cantare “Sapore di sale”, a un certo punto si era pure ritirato, aveva aperto un ristorante per sfuggire a quel rituale di ogni concerto, fino a quando non lo erano andati a riprendere con la scusa della tournée giubilare con la Vanoni; ma essere inchiodato a quella canzone, lui che ne aveva scritte ben altre, non lo accettava. Neppure Umberto Eco più sopporta di essere irreversibilmente legato al “Nome della Rosa”, il romanzo a chiave e pluristrato come una torta nuziale – conte philosophique, giallo hard boiled, riflessione post-dostoevskijana sul terrorismo, apologetica di Borges, inconsapevole precursore dei codici Da Vinci e suoi fratelli, insomma “Opera aperta” – che aveva svincolato il semiologo di nicchia, ex compilatore di domande per Mike Bongiorno, dal rango di accademico ignoto, per renderlo il romanziere italiano più venduto nel pianeta, nonché soggettista per Sean Connery.

Eco ha ammesso di non reggere più il peso di quel successo remoto, che pure tuttora gli permette di restare – insieme con Antonio Tabucchi – il più credibile candidato italiano al Nobel per la Letteratura, che manca al nostro Paese dal 1997, quando ad aggiudicarselo era stato Dario Fo. Sempre citato dagli allibratori negli ultimi anni tra i possibili premiati, Eco potrebbe seguire la sorte di altri laureati a detonazione ritardata, come Garcia Marquez e Grass cui erano serviti svariati decenni per veder riconosciuto il valore di opere come “Cent’anni di solitudine” e “Il tamburo di latta”, peraltro non seguiti – né sarebbe stato possibile accadesse – da opere di egual fattura, in carriere ontologicamente ineguali.

L’esordio dirompente a quasi cinquant’anni – «in età matura – disse, parafrasando Wittgensteinho scoperto che di quel che non si può teorizzare, si deve narrare» – era valso al professore alessandrino “naturalizzato” bolognese e quindi inventore del Dams un successo inesorabile, metro campione tuttavia delle opere successive. «Ho scritto sei romanzi, eppure tutti parlano sempre del “Nome della Rosa”, che io odio – ammette Eco, in un intervento al “Salone del Libro” di Torino – perché è una sorta di maledizione. Anche quando escono i libri successivi aumentano le vendite del “Nome della Rosa”». Ci sono più cose in cielo e in terra di quante siano scritte nelle ragioni del commercio. Il successo del romanzo a chiave di trentun anni fa eclissò così, né avrebbe potuto andare diversamente, l’opera più riuscita e meno suscettibile delle contingenze tra quelle pubblicate da Eco: proprio il secondo romanzo, conferma del proposito ironico di quel musicista che, consapevole della difficoltà di reggere il peso dell’attesa successiva all’esordio, si era posto l’obiettivo impossibile di passare direttamente dal primo al terzo album. “Il pendolo di Foucault”, infatti, pur nel manierismo ostentato di alcune soluzioni narrative e nella ricerca esasperata dell’effetto speciale, è il libro più riuscito di Eco, perché trasfonde mirabilmente in narrativa tutto il lavoro dello studioso di tecniche dell’espressione artistica: svillaneggiando il complottismo e la dietrologia che sarebbero divenuti gli emblemi di un tempo ancora da intuire, così come mettendo a nudo i laidi meccanismi dell’editoria vanesia che oggi dilaga perfino nei concorsi a premio della stampa quotidiana. Eco si duole nel sentirsi prigioniero del successo di un romanzo che nella percezione del pubblico avrebbe cannibalizzato gli altri sei, compreso il sottovalutato, per quanto fraintendibile, “Il cimitero di Praga”.

Alla vigilia dell’ottantesimo compleanno, in arrivo il prossimo anno, il vecchio ragazzo mandrogno, laureatosi con una tesi su Joyce e inutilmente impegnato a spronare un amico di studi bolognesi nell’impossibile traduzione del “Finnegans Wake”, si scopre ostaggio di un successo non controllabile, perché i gusti del pubblico sono la variabile assoluta di ogni industria e quindi, nel nostro tempo, anche di quella letteraria. E poi in fondo a suo tempo Petrarca era convinto che avrebbe ottenuto gloria perenne con il suo poema epico scipionico sulla conquista di Carthago, quando invece sarebbe stato il diario personale del tormento per la sua Laura ad assicurarlo al tempo non più suo. C’è forse un fondo d’inesorabile snobismo nel dispitto di Eco, per un successo che non tende a dissolversi a distanza di un tempo ormai ampio. E’ forse lo stesso disincanto di ogni artista condannato ad ardere in una sola, primigenia fiammata, per rendersi conto di non potersi sopravvivere e di dover gestire con ragionieristica melancolia una persistenza a stento alimentata da lavori concatenati palesemente non all’altezza del capostipite.

Destino comunque meno gramo di quello spettante alla moltitudine dei praticanti, condannati a un remigare privo di speranze perché prosciugato di ogni stilla di genio creativo, quindi sterile e destinato a non veder sbocciare che l’immagine nominalistica di una rosa, anziché un fiore che richiede tempo, pazienza e fortuna.

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