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Processo Aldrovandi, Pg chiede conferma condanna per i poliziotti

di Valentino Salvatore

Tre anni e sei mesi di reclusione. Quanto ha chiesto alla Corte d’Appello di Bologna il procuratore generale Miranda Bambace per i quattro agenti di polizia coinvolti nella morte del giovanissimo Federico Aldrovandi. Già condannati in primo grado, gli agenti Paolo Forlani, Luca Pollastri, Enzo Pontani e Monica Segatto rischiano di vedere confermata la pena, senza le attenuanti generiche. Anzi, secondo la requisitoria del pg, “si sfiora la possibilità del dolo eventuale”. Quella della morte di Federico Aldrovandi è una brutta storia, di quelle che non cessano di suscitare indignazione e sospetti sull’operato delle forze dell’ordine. Il ragazzo muore la notte del 25 settembre 2005 a Ferrara, durante un intervento della polizia. Proprio in quella tragica sera, Aldrovandi viene fermato da una pattuglia, mentre si trova nei pressi dell’ippodromo di Ferrara. In stato confusionale e di agitazione, secondo il rapporto della Questura, ha una colluttazione con gli agenti. Quindi viene immobilizzato, arriva sul posto un’altra pattuglia, ma qualcosa si complica. Verso le sei del mattino arriva un’ambulanza chiamata dagli stessi agenti, ma a nulla servono i soccorsi. Nonostante i tentativi di rianimazione, Federico è morto. Le cause, diranno poi i referti, arresto cardio-respiratorio e trauma cranico. Numerose le ferite trovate sul corpo, compatibili con l’uso di manganelli e calci.

Su che cosa o chi abbia causato l’improvvisa morte di Aldrovandi si scontrano le posizioni della famiglia del giovane e della difesa degli agenti. La madre, Patrizia Moretti, non ha mai smesso di lottare per fare luce sui fatti e riabilitare la memoria del figlio. Secondo lei, il resoconto ufficiale nasconde una verità scomoda che si vuole occultare. Ovvero che Federico sia morto a causa dei trattamenti troppo bruschi, se non per le vere e proprie percosse, da parte degli agenti. Non solo, che ci sia stata la volontà di rallentare e sviare le indagini. Sostenendo ad esempio che il giovane fosse morto per overdose, oppure non mettendo a disposizione dei giudici elementi che permettessero di svolgere le indagini in maniera più precisa. Come le registrazioni delle comunicazioni tra la pattuglia e la centrale, che gettano un’ombra sinistra sul comportamento della polizia. Tanto che a latere viene aperta un’altra inchiesta, presso la Procura di Ferrara, per reati quali falso, nonché omissione e mancata trasmissione di dati. Spunta anche una testimone, Anne Marie Tsegue, donna di origine straniera che risiede nelle vicinanze e decide di rompere il silenzio, di esporsi. Chiama in causa i poliziotti, afferma di aver visto gli agenti picchiare il giovane, inferire anche mentre questi era ormai a terra.

Le perizie dell’accusa escludono che il quantitativo delle sostanze stupefacenti assunte da Aldrovandi potesse causarne la morte. Si parla piuttosto di crisi cardiaca, dovuta a lesioni violente. La partita più importante si gioca proprio intorno a queste perizie, e infatti la difesa punta a presentarne di alternative e a contestare quelle promosse dalla famiglia del ragazzo. Il cuore di Federico, quel giovane cuore che si è fermato per sempre, entra al centro di un confronto macabro. Al processo, da una parte si fa strada  la tesi del dott. Gaetano Thiene, l’anatomo-patologo dell’Università di Padova cui si sono rivolti i legali della famiglia Aldrovandi. Questi parla di morte dovuta alla compressione del fascio di His, che regola il miocardio. In sostanza Federico, già provato, sarebbe deceduto per schiacciamento, probabilmente mentre era steso a terra. C’è però anche la perizia del cardiologo Claudio Rapezzi, che parla di excited delirium syndrome, cioè di decesso per crepacuore. In sostanza, secondo questa altra versione, Federico Aldrovandi sarebbe morto improvvisamente per insufficienza cardio-respiratoria e non direttamente per le lesioni subite, cosa che attenuerebbe la posizione degli agenti.

Il processo va avanti, fino ad una sentenza shock, quella che nel luglio del 2009 condanna in primo grado i quattro poliziotti coinvolti a tre anni e sei mesi. Non solo, tre di loro sono giudicati colpevoli anche nell’altro processo parallelo, per aver intralciato le indagini. Ma gli agenti condannati, per l’indulto varato nel 2006, pare che ormai non sconteranno la pena. Nessun colpevole, nonostante ci sia un giovane che ha trovato la morte, steso sull’asfalto di una fredda nottata ferrarese. E’ una storia drammatica che cerca di ricostruire anche il documentario diretto da Filippo Vendemmiati, dal titolo E’ stato morto un ragazzo, uscito nel 2010 e presentato alla 67esima mostra cinematografica di Venezia. Per non far sbiadire almeno la memoria di un ragazzo che forse non otterrà né giustizia né pace.

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