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Tempo d'Estate Araba'

di Paolo Cappelli
Se volessimo stilare una classifica degli eventi più significativi di questo inizio di secolo, potremmo sicuramente mettere la Primavera araba sul podio e non solo per i mutamenti che ogni paese ha visto e vedrà nell’immediato futuro. Essa è strategicamente importante, forse anche più dell’11 settembre o della crisi finanziaria iniziata nel 2008. Si tratta della terza ondata di democratizzazione radicale, dopo quella dell’America Latina degli anni ’80 e dell’Europa orientale degli anni ’90, ma è di natura più complessa quindi più difficile da decifrare. Coinvolge tre continenti (Africa, Europa e Asia occidentale/Medio Oriente) ed è un fenomeno molto più esteso di quanto si pensi, dal momento che riceve l’attenzione di paesi anche extraregionali, come la Cina. Inoltre, pone le fondamentali questioni della stabilità e della democrazia in quanto realtà che interagiscono, in particolare se si considerano le aspirazioni islamiste nella regione. Infine, si lega direttamente al conflitto israelo-palestinese, elemento che contribuisce all’instabilità dei rapporti tra il mondo occidentale e quello arabo.
Le questioni ancora aperte riguardano il come riuscire a sostenere le legittime richieste dei popoli volte a conquistare una maggiore apertura delle proprie società e dei propri sistemi politici, ma anche quale sia il ruolo delle organizzazioni regionali nella gestione dei diversi attori coinvolti, nonché il peso delle potenze regionali come l’Unione Africana, la Lega Araba, gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Le prime due hanno assunto posizioni anche molto diverse in merito a quanto sta accadendo in Libia e in Siria, ma l’idea che sembra prevalere in queste ore riguarda essenzialmente l’attenzione rivolta ai paesi del Maghreb e del più vicino oriente dalla comunità internazionale.
Le Nazioni Unite, dal canto loro, sembrano aver speso gran parte del proprio tempo a discutere di Israele e Palestina (anche se va riconosciuta l’importanza della questione) e troppo poco delle fondamentali questioni sollevate a seguito delle mancate riforme politiche ed economiche nella regione. Anzi, è stato proprio il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) a predire, attraverso i propri rapporti tra il 2001 e il 2005, che l’assenza di riforme nei settori citati avrebbe potuto scatenare proteste, anche violente, contro i regimi in carica. Recentemente, tuttavia, le prese di posizione del Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon hanno sgombrato il campo dalle ombre relative all’immobilismo del palazzo di vetro. Alle significative dichiarazioni sono seguiti atti concreti volti alla protezione dei civili: l’Assemblea Generale e il Consiglio per i Diritti Umani hanno immediatamente sospeso la Libia e chiuso la porta all’accettazione della candidatura della Siria quale membro del secondo organismo. Non solo, il Dipartimento Affari Politici e l’UNDP hanno offerto la propria esperienza a paesi come Tunisia ed Egitto ai fini della stesura di una (nuova) costituzione, o in caso di organizzazione di nuove elezioni. Inaspettato, in questo senso, è stato il consolidarsi dei membri del Consiglio di Sicurezza, alcuni tradizionalmente con posture anche molto diverse, attorno alla necessità di intervenire. Quando fu redatta la risoluzione 1970, le indecisioni sul se il Consiglio di Sicurezza dovesse o meno pronunciarsi furono spazzate via dalla defezione della prima ora dell’allora Ambasciatore libico all’ONU, il quale paragonò Gheddafi a due sanguinari dittatori del calibro di Hitler e Pol Pot. Successivamente, furono la violenza del linguaggio adottato dallo stesso Gheddafi nel riferirsi al proprio popolo, nonché l’appello della Lega Araba, che spinsero il Consiglio (in particolare i membri africani) ad adottare la risoluzione 1973.
Cosa impedisce, oggi, di intraprendere le stesse azioni contro regimi come quello siriano e yemenita, che si sono dimostrati altrettanto, se non più, sanguinari nel reprimere le richieste di democrazia dei propri popoli? Ci sono due considerazioni da fare a questo riguardo ed entrambe hanno la cautela come ragione di fondo. In primo luogo, a parte incidenti minori (e qui “minore” va inteso in senso quantitativo e non qualitativo), la NATO è stata particolarmente cauta nel tentare di evitare vittime tra i civili, riuscendo finora nell’intento, in termini generali; non si vuole vanificare questo risultato accrescendo la portata dell’intervento e aumentando l’impegno. In secondo luogo, un intervento di questo tipo, replicato in Siria e Yemen, è facilmente strumentalizzabile e pubblicizzabile dai detrattori come uno scontro di civiltà tra il mondo occidentale ricco e tecnologicamente dotato, che tenta di annientare un mondo arabo pronto a invocare in ogni istante la questione religiosa. Una terza considerazione riguarda il consenso interno al Consiglio di Sicurezza. Cina e Russia hanno già fatto sapere di essere pronte a votare una risoluzione di condanna, ma anche a porre il veto su qualsiasi provvedimento che preveda un intervento diretto della comunità internazionale. I motivi di tale atteggiamento si riferiscono, fondamentalmente, ai grandi interessi strategici che i due macropaesi hanno nella regione.
La transizione da una Primavera a un’Estate araba ha più un significato catartico, che politico. Riguarda una trasformazione che vedrà cadere teste importanti, come furono quelle di Pinochet e poi di Tito e Milosevic.
Nonostante le difficoltà che sembrano bloccare gli ingranaggi esistono motivi per essere ottimisti, principalmente per la determinazione che i diversi popoli stanno mostrando nel voler conquistare la propria democrazia. Ci saranno momenti di caos, ci vorrà forse una generazione, ma l’Estate arriverà. La primavera ha già visto la scomparsa di Osama Bin Laden e, grazie alla volontà non violenta dei dimostranti (che hanno imbracciato le armi solo quando è stato imperativo difendersi),  l’affossamento della sua retorica terroristica. Questo non significa che il terrorismo sia destinato all’estinzione, ma sicuramente è già un fatto che non se ne condividano i metodi.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno capito che è giunto il momento di fare un passo indietro: la spesa militare non è più sostenibile (e ancor meno lo è aprendo nuovi teatri d’intervento), il sostegno dell’opinione pubblica interna nei confronti delle opzioni militari vacilla e non è auspicabile intervenire contro un ulteriore paese islamico. La parte del leone, ora, possono giocarla le Nazioni Unite, ma la positiva risoluzione delle questioni ancora aperte richiederà la capacità di chiudere quattro partite: in primis, quella in Libia, dove la rapida risoluzione della transizione gioca un ruolo chiave, anche in termini della violenza che sarà necessaria a conseguirla. Maggiore rapidità significa contenere il grado di divisione esistente tra la popolazione. Il secondo campo da gioco è quello egiziano. Una rivoluzione sostenibile ed efficace nel paese avrà un forte impatto ben al di là dei confini nazionali, ma l’individuazione dei giusti meccanismi è tutt’altro che semplice.
L’Unione Europea fu lungimirante nel sostenere la democratizzazione dei paesi balcanici, offrendo loro la prospettiva di un allargamento che oggi vede gli stessi paesi quali membri. Non è questa l’opportunità che è possibile offrire ai paesi arabi, ma l’accesso ai mercati, al credito e al sostegno economico sono forse sufficienti a stimolarne l’interesse. Il terzo processo da portare a conclusione è quello del processo di pace israelo-palestinese. La richiesta dei palestinesi di un riconoscimento quale Stato non può essere separata dalla Primavera araba e un eventuale stallo porterebbe l’ingranaggio avviato nell’intera regione a rallentare, fino anche ad incepparsi. Eventuali progressi, particolarmente grazie a un maggior coinvolgimento delle Nazioni Unite, porterebbero a consolidare i progressi registrati fino a questo momento. L’ultimo settore d’intervento riguarda l’Iran, paese che si è attribuito il merito di aver avviato la Primavera araba, come se il suo presidente non fosse un primatista della repressione di qualsiasi opposizione, o come se il suo arsenale nucleare suppostamente dissimulato e il sostegno offerto alle organizzazioni terroristiche non potessero costituire un ostacolo, se non addirittura un pericolo, per l’intero processo regionale di democratizzazione.
Resta ora da vedere come i diversi attori internazionali, le Nazioni Unite su tutti, sapranno affrontare le significative sfide poste da questa nuova, calda, estate araba.

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