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Da Cina, India e Africa nuovi modelli di architettura sostenibile

di Mariano Colla
L’ambizioso obiettivo della progettualità urbanistica è volto al tentativo di dare una veste nuova agli edifici che ingoiano il territorio, promuovendo principi di  ecosostenibiltà  da incorporare nelle strutture abitative e di pubblico impiego, al fine di renderle  compatibili con le esigenze umane e con le criticità del sistema ambientale.
L’argomento ha un’ampia diffusione al livello internazionale e proprio in questi giorni al Cersaie di Bologna (salone internazionale della ceramica per l’architettura) una tavola rotonda dal titolo  “Nuove architetture” affronta il tema dei nuovi modelli architettonici nei paesi in via di sviluppo.
Sembrerebbe emergere un nuovo “credo” tra gli architetti che, alla prese con i vincoli posti da una natura devastata e defraudata, danno sfogo a una creatività innovatrice, coniugano   estro e genialità con una maggior sensibilità ai fenomeni ecologici e sociali di cui soffre il nostro pianeta.
Proprio partendo dalle aree più critiche del mondo, dai così detti paesi emergenti, vengono messe sul tavolo nuove proposte in grado di soddisfare le sfide contemporanee. L’architettura si spoglia del manto etereo  e sofisticato che ne ha permeato il tragitto storico per abbracciare idee incentrate, non solo sull’estetica, bensì sulla capacità  di inglobare sostenibilità, risparmio energetico, riciclo ed uso di tecniche locali, impiego di materiali autoctoni.
Il ruolo dei grandi  architetti nella storia dell’urbanistica è stato in buona misura marginale, spesso limitato ad opere pubbliche di grande dimensioni o a una progettistica privata d’elite.
Tuttavia dalle loro idee ha spesso preso spunto l’urbanistica popolare, ma nella traduzione ingegneristica di tali idee molto si è perso dell’ispirazione iniziale, ispirazione condizionata da elementi economici e speculativi, con risultati pessimi, sia per quanto riguarda l’estetica che la vivibilità.
L’occidente ha pesantemente sofferto di tale dualità, con il conseguente squilibrio armonico che ha caratterizzato lo sviluppo di molti tessuti urbani.
I paesi emergenti, con tumultuose propensioni a uno sviluppo caotico e disarmonico, con alla ribalta continui problemi di vivibilità delle masse e delle maestranze, non hanno certo dato, in questi ultimi 20 anni, segni di scostamento dal percorso seguito anni prima dai paesi industrializzati.
Anzi, le immagini impressionanti delle megalopoli cinesi, indiane ed africane sono all’ordine

Palmira House

del giorno, tragici esempi di urbanizzazione selvaggia senza regole e senza i più elementari servizi.
In tale ottica la proposta nuova che sembra emergere caratterizza un ruolo più “popolare” dell’architettura, un ruolo più sociale e meno di prestigio.
Un ruolo orientato a trovare soluzioni urbanistiche atte a cogliere le esigenze di un pianeta che brucia risorse e che cresce a dismisura, un ruolo indirizzato ad esprimersi su scenari globali, delineando i nuovi progetti edilizi in armonia con le effettive esigenze abitative di massa, con la necessità  di servizi idonei a garantire livelli di qualità della vita accettabili.
Dietro tale proposta sembra nascere il desiderio e la convinzione degli architetti di  “coinvolgere le comunità locali in tutte le fasi di ideazione e di costruzione “, quasi evidenziando una nuova forma di democrazia abitativa  atta a progettare e realizzare  ciò di cui il tessuto urbano ha realmente bisogno,  nel rispetto, appunto, di una nuova qualità del vivere.
In tali iniziative si configura il significativo coinvolgimento anche di architetti locali, come per esempio Dièbèdo Francis Kèrè del Burkina Faso, che ha studiato in Germania, e l’indiano Bijoy Jain Bio di Mumbai, che costruisce in India recuperando materiali e tradizioni locali.
Ha affermato Kèrè in un recente simposio: “la sostenibilità passa per la condivisione e il coinvolgimento delle persone nei progetti. Alla costruzione della scuola elementare del villaggio dove sono nato, a Gando, hanno partecipato tutti. E’ da lì che comincia lo sviluppo, l’architettura è una disciplina sociale”. Insomma tutti partecipano alla costruzione e si crea occupazione e lavoro.
Studi di architetti italiani quali Caravatti e Vannucci stanno da tempo introducendo progetti di architettura nel Mali “per una precisa scelta politica di praticare una architettura etica, perché l’architettura è prima di tutto etica”.
Anche in Cina, oltre agli stratosferici investimenti in una urbanistica di lusso, oppure in quartieri alveare, si fanno strada  progetti di rivalutazione di aree dismesse, come per esempio la trasformazione di una ex zona portuale  in un luogo con diverse stratificazioni architettoniche e con spazi pubblici dedicati alla cultura.
In India, poco lontano da Mumbai, sorge Palmira House, un progetto abitativo  ideato e costruito interamente in legno secondo la tradizione indiana.
Le abitazioni sono tutte dotate di  aerazione naturale, aperture che dosano luce e ombra  proteggono dal calore,  mentre l’inclinazione dei tetti, le porte scorrevoli  in legno e bambù sono studiate  per far fronte alle piogge. E’ un tipico esempio di architettura che impiega mezzi, risorse e tradizioni locali e che è destinato ad avere ampia diffusione nel continente indiano, soprattutto alla luce di una collocazione rurale di tale struttura abitativa.
Sono in evoluzioni quindi nuovi modelli architettonici  che possono assicurare scambi di tecniche e culture con l’Europa e l’Occidente. Sono modelli ecosostenibili di cui il mondo occidentale ha un gran bisogno per ridare una dimensione umana al travolgente progresso che tutto ha fagocitato in questi ultimi decenni, ma soprattutto fa piacere notare che il così detto terzo mondo fornisca stimoli per una ripresa del ”credo” nella capacità e nella sensibilità dell’uomo.
Fulvio Irace, altro architetto impegnato in progetti ecosostenibili, afferma che :”è importante immaginare l’architettura come un laboratorio  d’azione politica e  sociale  vicino agli individui”.

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