di Mariano Colla
11 settembre, tragica ricorrenza di un evento che ha lasciato una traccia indelebile nella storia del mondo, sia per la tragedia in sé che per la dimensione mediatica e spettacolare che lo schianto dei jet sulle torri gemelle e la loro rovinosa caduta ha straordinariamente evidenziato.
Nel 10° anniversario di un evento così sconvolgente i mezzi informativi, dalla radio alla televisione, dalla stampa ad internet, richiamano alla memoria i documenti, le immagini, le interviste, i filmati di quella tragica mattinata di settembre e ricordano che l’episodio “ha cambiato il mondo” o che “ da allora il mondo non è più lo stesso”.
Frasi un po’ retoriche, forse, espressioni dettate da un profondo senso di partecipazione o dalla necessità mediatica di colpire, di lasciare un segno. In realtà ho sentito la necessità di andare oltre l’impressione superficiale e di indagare se, effettivamente, dietro tali espressioni non ci fosse di più, non ci fossero elementi di verità tali da giustificarne il contenuto.
Ho riflettuto sul fatto che, prima e dopo l’11 settembre, le tragedie hanno costantemente fatto parte della storia di questo mondo, causando drammi e dolori di portata sconvolgente quali guerre, pulizie etniche, massacri, attentati ed eccidi ingiustificati; pur tuttavia, l’effetto mediatico da esse prodotte ha appena scalfito coscienze e sensibilità collettive, in altri termini non hanno cambiato il mondo perché del mondo ne hanno fatto sempre parte.
E allora, perché il devastante crollo delle twin towers ha segnato in forma così indelebile l’immaginario collettivo, tanto da conferire all’evento un significato epocale, un senso di ineluttabile tragedia gravante sull’intera umanità?
Ho provato a parlarne con alcuni amici americani e il loro sgomento per l’accaduto risiedeva allora, come oggi, nella paura. Loro, americani, cittadini di una potenza superiore e supertecnologica, colpita nel cuore, senza un pur minimo tentativo di difesa, hanno paura, anzi terrore, di essere colpiti ancora. Ogni certezza ha lasciato posto all’insicurezza.
Cittadini americani alla mercè di un piccolo gruppo di terroristi dirottatori. La sicurezza di un paese, apparentemente inattaccabile sul proprio territorio, che improvvisamente si scopre fragile e indifeso.
La paura, quindi, come possibile giustificazione di un mondo che non è più lo stesso?
In parte si ma, a mio avviso, un’altra e più solida spiegazione risiede nel fatto che l’11 settembre ha infranto un simbolo, e, si sa, la vita è fortemente impregnata di simboli. Diceva infatti un filosofo che la vita è struttura biologica ed esperienza simbolica.
Gli Stati Uniti, nel bene e nel male, hanno, da sempre, contribuito a creare nell’immaginario collettivo una simbologia basata sulla potenza, sui modelli economici di successo, sullo stile di vita, sulla democrazia, sulla libertà, sulle opportunità per tutti.
Un paese, la cui territorialità non ha subito aggressioni ( Pearl Harbour era lontana dal territorio metropolitano) e che ha sviluppato, a torto o a ragione, una immagine di sé accattivante, immagine a cui hanno contribuito migliaia di chilometri di celluloide, soap operas, riviste patinate, libri e giornali. Per molti quindi un mito, un modello da imitare e da invidiare.
Chi, anche per pochi secondi, nell’arco della propria vita, non ha visto gli Stati Uniti come il paese dei sogni da vivere o da realizzare, non ha immaginato l’America quale luogo avulso dalle miserie, dalle inefficienze e dalle contraddizioni del resto del mondo?
Ebbene tale simbolo è stato infranto dai jet che si schiantavano sulle twin towers, edifici simbolo dell’opulenza americana, il tutto inserito in una spettacolare e tragica coreografia, paradossalmente riconducibile ai catastrofici film kolossal americani che per anni hanno riempito le sale dei nostri cinematografi.
“Il mondo non è più lo stesso” si riferisce quindi non tanto alla gravità dell’evento in sé, quanto al crollo di un simbolo apparentemente intoccabile, un simbolo la cui misera caduta ha gettato buona parte dell’umanità nella consapevolezza del “tutto effimero”.
New York, in particolare, pur non rappresentando per molti americani l’immagine più autentica degli Stati Uniti, era il simbolo di un paese vincente, con i suoi lussi, con le sue aristocrazie industriali ed economiche, con i grattacieli che svettano ovunque nelle loro scintillanti strutture in vetro e cemento, indimenticabile skylight di una città che non dorme mai. New York, icona preferita del mito americano, ha subito una ferita indelebile che ne ha sfregiato il volto, trascinandola nelle miserie del mondo.
Il naufragio di un simbolo in un mondo postmoderno.
Il mondo postmoderno che ha abdicato ad avere valori solidi a cui riferirsi, che ha privilegiato il primato delle interpretazioni sopra i fatti e che si è imposto il superamento del mito dell’oggettività, ha perso, nel devastante crollo delle torri, un altro simbolo, forse uno degli ultimi a reggere in uno scenario senza certezze che l’uomo ha voluto nel suo percorso di liberazione dai vincoli di una realtà rigida e monolitica, ma che ora lo porta ad annaspare verso nuovi lidi.
Il volto del cittadino americano stravolto e ricoperto di polvere, le sagome informi che vagano nel nulla, le luccicanti “strade” e “ avenues” fagocitate dalla nera coltre di mattoni sbriciolati e cemento polverizzato, sono queste le immagini che “hanno cambiato il mondo”.
La presa di coscienza che niente e nessuno è intoccabile e che, inesorabilmente, siamo tutti legati alla stessa barca, è probabilmente la vera causa del malessere legato all’11 settembre.
Vi è in tale evento la sensazione di aver perso un appiglio simbolico che, per quanto fatuo, rappresentava l’esistenza di un “altro mondo”, in cui ognuno, a modo suo, poteva illudersi di evadere.