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Italian Revolution: una riflessione dalla blogosfera

di Michele Azzu (L’isola dei cassintegrati)

 

Ho seguito con interesse uno spunto di dibattito (internazionale) lanciato da Luca de Biase: “The case for an italian rebellion. Why it doesn’t happen?”. E’ importante cercare di capire cosa accade in casa nostra secondo gli osservatori di altri paesi, e in relazioni a ciò che accade all’estero.

Ci chiedono: ma perché voi italiani non vi ribellate? Come fate a sopportare questo muro di gomma del governo, del sistema politico, di un gruppo di potere incredibilmente arroccato sulle sue poltrone (cit. de Biase) ormai distante anni luce dalla società civile? E, in secondo luogo, cercare di capire: c’è un nesso, o uno sbocco comune tra gli indignati spagnoli, israeliani, cileni e l’attuale occupazione di Wall Street, oppure no?

La discussione porta alla luce diversi punti importanti. La massima politica “Ogni cittadinanza ha i governanti che merita”. E poi il momento dei referendum e delle elezioni amministrative di Napoli, Milano e Cagliari, che fecero ben sperare molti di noi solo tre mesi fa. Infine un salto storico, alla contestazione negli anni ’70 che porta tutti noi ad essere molto, molto cauti nel discutere di ribellione e rivoluzione.

Conclude De Biase: il tappo, politico, al rinnovamento c’è. Da qui la necessità di una ribellione, non necessariamente in forma di contestazione di piazza. Ipotesi confermata da più parti di recente, tra cui Giulietto Chiesa su Cado in Piedi, e Alessandro Gilioli su Piovono Rane. E mentre Chiesa si limita ad un semplicistico “Paghino loro la crisi”, dove loro sta per il binomio Banche/Politica, riporto da Gilioli:

“Difficilmente, in coscienza, si potrà restare a guardare o a commentare pacati davanti a una tastiera o in un talk show. Tra l’accettazione passiva di una barbarie e la presa della Bastiglia ci sono galassie di possibilità e di pressioni possibili, nella legalità e nella disobbedienza civile”

E allora la domanda resta come, dove, quando e chi. Parliamoci chiaro: questo tanto atteso “autunno caldo” italiano è stato un flop, e lo diciamo noi che siamo pure scesi in piazza col Popolo Viola e Indignati per realizzare un bellissimo tavolo lavoro a Roma il 10 settembre. Con Grillo, con gli Indignati, col Popolo Viola, con la Cgil e con tutte le altre sigle… sono pochissimi quelli scesi a manifestare.

Ci sono due ragioni, per questo flop. E’ da Agosto che sentiamo parlare di autunno caldo, è una contestazione che è stata palesemente chiamata dall’alto, e non parlo solo di partiti ma anche di movimenti. C’è stata ben poca spontaneità nel chiamare questa contestazione. In parallelo la frammentazione: La Cgil che si inserisce all’ultimo il 6 settembre. Il 10 Da un parte Popolo Viola e Indignati, a due isolati in contemporanea Beppe Grillo Col M5S. Poi L’Unione degli studenti, poi il 15 ottobre, poi i partiti. Ognuno a ritagliarsi la propria fetta di autunno.

Era inevitabile che ci sarebbero stati flop a catena – questo vale per chiunque – e poi frizioni e scontri inevitabili conseguenti. In questo post il Popolo Viola accusa il direttore del Tg La7 Mentana di strumentalizzazione, laddove parla di flop. Dall’altra parte diversi opinion leader e blogger, pensano che bisogna ribellarsi in maniere alternative, fuori dalle logiche del PV. Su obiettivi concreti e puntuali, come quella di Valigiablu e Federazione della stampa al Pantheon contro il bavaglio ai blog, in cui si sono consegnate le 13.000 firme sulle dieci domande a Berlusconi.

Insomma, la battaglia fra movimenti e partiti, fra chi lotta “contro” e chi protesta per “che cosa”, come sottolinea in questa interessante intervista Ethan Zuckerman. Una modalità di scontrarsi all’interno della cittadinanza attiva che, vi assicuro, gli stranieri troverebbero molto italiana. E non del tutto a ragione.

Quando e come vi ribellerete voi italiani, ci chiedono. Rispondo come Mario Calabresi al New York Times: “gli italiani sono indignati, ma non abbastanza da andare in piazza invece che al ristorante”. Quando scenderemo in piazza a migliaia? Quando tasteremo con mano gli effetti della manovra economica, di quelle azioni stabilite dalla BCE (qui l’originale dal Corriere) che il nostro governo ha applicato solo nella parte in cui si scarica il peso sui lavoratori. Senza badare alle azioni orientate alla crescita, senza badare a quelle richieste sempre più forti di riduzione dei privilegi della politica.

Vorrei concludere questa riflessione rispondendo a questo articolo de Il Post, che contiene una critica positiva del movimento “Occupy Wall Street” che condividiamo. Solo una postilla, dato che la discussione è partita da chi all’estero ci chiede quando ci ribelleremo.

Non stiamo solo a guardare all’estero come esempi riusciti di protesta da imitare. Se la forza delle contestazioni fuori, come dice Il Post, è la pazienza e il sacrificio personale con l’occupazione a oltranza… in Italia non abbiamo nulla da invidiare a nessuno. Pochi lo sanno, ma la fabbrica Tacconi di Latina è occupata da 250 giorni dalle operaie. Pochissimi lo sanno, ma gli operai della Rockwool da oltre un anno occupano un bus abbandonato nel Sulcis, nel sud Sardegna. E molti lo sapevano, e forse lo hanno dimenticato, che gli operai della Vinyls hanno trascorso oltre un anno nelle celle dell’Asinara, con grande sacrificio personale. (L’elenco potrebbe continuare…)

Sono queste le persone – che seguiamo su questo blog e che abbiamo portato in piazza a Roma – che prima di tutte, per tornare a Calabresi, non si sono più potute permettere il ristorante. E allora la domanda che dobbiamo farci ora è: quanto manca prima che succeda anche a noi?

 

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