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Donne al lavoro? In Italia discriminate e pagate il 18% meno degli uomini

di Francesca Lippi
 

Qualcuno avvisi il Belpaese che siamo nel 2011, quasi 2012. Già l’anno scorso l’Ocse affermava che soltanto il 46 per cento delle donne italiane aveva un lavoro, contro una media del 62 per cento. Peggio di noi si posizionavano solo il Messico e la Turchia. Non solo: forse non tutti sanno che avremmo dovuto superare il 60 per cento di occupazione femminile entro il 2010, come stabilito dal Trattato di Lisbona. Secondo il rapporto stilato da Manageritalia, dal titolo “150 anni dall’Unità d’Italia: alla rincorsa della parità tra sorelle e fratelli d’Italia” emerge che l’occupazione femminile italiana è la più bassa nel Vecchio continente essendo occupate solo il 46,4 per cento delle donne in età da lavoro contro una media europea del 59,9 per cento.

Stipendi più bassi

A questo va aggiunta, poi, l’odiosa abitudine di erogare stipendi più bassi alle signore. Questo dato viene confermato da una ricerca curata dall’Isfol da cui risulta che, a parità di qualifica e impiego, la differenza di retribuzione tra uomini e donne in Italia si attesta tra il 10 e il 18 per cento “ed è dovuta interamente a fenomeni di discriminazione”. Dalla ricerca, condotta su 10 mila lavoratori e lavoratrici italiane, emergerebbe che il differenziale retributivo di genere misurato sul salario orario dei soli lavoratori dipendenti sarebbe pari in media a 7,2 punti percentuali. “La mancanza di politiche di conciliazione costringe le donne a uscire dal mercato del lavoro, ne impedisce la continuità lavorativa e limita le loro opportunità di carriera”. Per il Cnel, però, “non è più possibile sprecare una forza lavoro qualificata e potenzialmente molto produttiva come quella femminile”.

Il Pil ne risente

I machi e le casalinghe che pensano che questi numeri debbano essere contestualizzati nella cultura del nostro Paese sbagliano. A quanto pare, infatti, un maggior tasso di occupazione femminile potrebbe produrre effetti positivi sul Prodotto interno lordo nazionale. Il raggiungimento dell’obiettivo fissato dal Trattato di Lisbona, infatti, determinerebbe un aumento del Pil fino al 7 per cento, dice Anna Maria Tarantola, vicedirettore generale della Banca d’Italia. Secondo Tarantola, “nonostante alcuni progressi la situazione italiana presenta ancora ampi margini di miglioramento e il posizionamento nel global gender gap” collocando il nostro Paese al 74esimo posto e al 97esimo per la componente relativa alla partecipazione economica. Intanto, però, come già registrato dall’Istat solo qualche mese fa, le donne “rappresenterebbero il pilastro delle reti d’aiuto informale”, il che significa che, dove non arriva lo Stato con servizi all’infanzia e agli anziani, arriva il ‘gentil sesso’. Anche in un momento storico in cui, all’interno del nucleo familiare, sono necessari due stipendi. “Il dato deve far preoccupare se affiancato anche all’altro che vede ben 800 mila donne che, con l’arrivo di un figlio, sono state costrette a lasciare il lavoro, perché licenziate o messe nelle condizioni di doversi dimettere. Un fenomeno che colpisce più le giovani generazioni rispetto alle vecchie e che appare particolarmente critico nel sud Italia, dove “pressoché la totalità delle interruzioni può ricondursi alle dimissioni forzate”. La donna italiana, quindi, resta a casa a far la calzetta, dunque. E a farne le spese è l’economia del Belpaese.

La responsabilità delle donne

Si dice –ed è vero- che mancano i servizi, come asili nido numerosi ed abbordabili. E se questa carenza di servizi si basasse, invece, su una cattiva abitudine culturale e dunque su una bassa domanda? Oramai, infatti, le donne stesse non dovrebbero vedere il lavoro solo come un diritto, ma anche come un dovere civico e nei confronti della propria famiglia. Alberto Cova, docente di economia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, spiega che già a partire dal Secondo dopo Guerra si gettano le basi per l’attuale situazione occupazionale femminile. “Tra i due censimenti del 1921 e del 1936 è da rilevare il ridursi del tasso di attività generale della componente femminile della popolazione. Con riferimento all’intero Paese, passò dal 41,5 per cento al 39,4 per cento”. Ma “mentre altrove la tendenza generale dell’occupazione femminile era verso l’aumento, in Italia accadeva l’opposto”. Che si tratti di una problematica endemica? Per esempio, Tito Boeri e Vincenzo Galasso nel libro ‘Contro i giovani. Come l’Italia sta tradendo le nuove generazioni’ sono convinti che serva rafforzare i diritti paterni. “Questo significa concedere, come in molti paesi del nord Europa e recentemente in Spagna, un congedo di paternità pienamente retribuito e non fruibile dalle donne”. Il risultato sarebbe proprio quello di ridurre l’effetto dei ‘soffitti di cristallo’ in base ai quali alle donne è quasi totalmente negato l’accesso ai posti di comando. Però, Boeri e Galasso notano anche che proprio le italiane non sarebbero favorevoli a una proposta di questo tipo, in quanto “contrarie ad allontanarsi dai figli piccoli per tornare a lavorare”. Ad una conclusione analogamente scomoda arriva lo studio ‘Tutto in famiglia: cura informale dei bambini e partecipazione delle madri al mercato del lavoro’ condotta da Bruno Arpino, Chiara Pronzato e Lara Tavares dell’Università Bocconi e pubblicata a gennaio dall’Università britannica di Essex: “Nel nostro Paese solo il 15 per cento dei piccoli sotto i tre anni va al nido. E questo in un caso su due avviene perché la mamma non si fida del nido stesso. Punto e basta”.

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