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Occupy Wall Street: chi è l'1% contro cui protestano?

di Paolo Cappelli

 

La protesta messa in atto dal movimento statunitense che va sotto il nome di Occupy Wall Street (Occupiamo Wall Street) è pacifica, ma risoluta: “non ce ne andremo, siamo qui per rimanere” è lo slogan degli occupanti. Viene da chiedersi, semmai, quale sia l’effetto e il risultato di questa protesta fino a questo momento, ma la risposta può benissimo applicarsi a ogni altra forma pacifica di dissenso. Per ora, quelli che più apprezzano la protesta sono i media: dal punto di vista della comunicazione e della cronaca, infatti, questo movimento e gli altri con i quali condivide istanze e finalità, rappresenta una miniera pressochè inesauribile a partire della quale si può estrarre storie, scrivere commenti, aprire dibattiti, tentare una lettura sociologica degli animi e del momento politico-economico attuale, fare un bilancio della leadership politica e finanziaria dei nostri paesi, proporre riflessioni sul ruolo della finanza e delle banche nell’apertura e la prosecuzione di una crisi che ha manifestato i primi sintomi già nel 2007 e che quindi dura da quasi un quinquennio.

La domanda, però, è: cui prodest, a chi giova? L’impressione è che la cautela forzatamente instillata dalla crisi (e non dalle proteste) nel comportamento dei banchieri sia la conseguenza di una presa di coscienza del fatto che, da un punto di vista economico e finanziario, i diversi operatori hanno ora ristrettissimi margini di manovra. Questa cautela, che ha portato da un lato a stringere ancore di più i cordoni del credito e dall’altro a prevedere drastici ridimensionamenti quantitativi degli organici, non dipende dalle proteste, anzi da queste è totalmente slegata, non essendone né causa né l’effetto. La protesta non giova ai manifestanti, che godono sí di un periodo di fama collettiva, senza però conseguire il risultato auspicato e cercato in varie forme.

Se il movimento vuole veramente ottenere un cambiamento, l’azione da intraprendere deve avere come oggetto non la piazza, non le cinghie dei manifestanti, sempre più strette, non il senso di soffocamento che le banche e la finanza sembrano imporre giorno dopo giorno, ma la struttura stessa della finanza e dell’economia mondiale. Esso deve essere, allo stesso tempo, tarlo e crisalide. Mangiare da dentro e generare una metamorfosi. Uccidere e far rinascere.

Un antico proverbio cinese, attribuito a Confucio, recita: se non puoi combatterli, alleati con loro. Ecco, i manifestanti devono, dopo aver dimostrato al mondo quanti sono, far vedere chi sono, intercettare i grandi azionisti insoddisfatti del modo in cui vengono gestite le banche e i grandi isituti a partecipazione pubblica e mista. Non dovrebbe essere difficile (ma potrebbe esserlo per il cittadino comune che deve poi interloquire con queste figure) individuare gli investitori scontenti che desiderano assumere un ruolo più attivo in un processo di riallineamento del sistema a nuovi standard. In questi termin si è espresso qualcuno che con le difficoltà della quarta settimana ha poco a che vedere, ovvero il multimiliardario Mark Cuban, proprietario, tra l’altro, della squadra di basket di Dallas (i leggendari Mavericks) e presidente di HDnet, colosso nel settore delle TV via cavo. “Se il movimento vuole realmente cambiare le strutture societarie e avere un effetto sull’economia – ha detto – deve parlare con gli azionisti, magari presentandosi a una loro assemblea, dove proporre nuovi modi di interpretare gli interessi degli azionisti stessi”.

Il movimento Occupy Wall Street trova il suo punto di forza nell’essere un movimento globale, nel rappresentare tutti coloro che non rientrano nel cosiddetto 1%, ovvero in coloro che pagano più tasse perchè guadagnano molto più degli altri. Ma chi sono questi grandi ricchi? A differenza di quanto si pensa, la forbice, almeno negli Stati Uniti, non è forte. Nel club dell’1% si entra guadagnando “appena” 343.927 dollari l’anno (fonte: Internal Revenue Service) e nel 2010 ci sono riuscite ben 1,4 milioni di famiglie, che da sole hanno guadagnato il 17% del reddito nazionale, cioè circa 1300 miliardi di dollari, e corrisposto circa il 37% delle imposte sul reddito. E nonostante la soglia minima di accesso fosse di poco inferiore ai 350mila dollari, il tetto dei guadagni è ben più alto e si aggira sui 960mila. L’accesso a questa cerchia elitaria, tuttavia, varia molto con l’andamento del mercato azionario; solo nel 2007, cioè poco prima che si manifestassero concretamente gli effetti di quello che era solo l’inizio della crisi, la soglia d’ingresso era di 424mila dollari, circa 90mila in più. Tra le categorie professionali maggiormente rappresentate, i broker e gli operatori finanziari (14%), dirigenti, manager e alti funzionari (31%), medici (15,7%) e avvocati (8,4%) (fonti: State Comptroller Office, Williams College, Treasury Department e Indiana University).

Tuttavia, senza un piano d’azione dettagliato, un leader carismatico, o un portavoce in grado di presentare in maniera chiara le idee e le aspettative del gruppo, la protesta si tradurrà in niente di più che in un’occupazione di suolo pubblico, costituzionalmente protetta, lunga e partecipata quanto si vuole, ma priva di effetti reali.

Laddove un maggior numero di investitori condividesse i sentimenti degli occupanti, sarebbe molto più difficile, per i consigli di amministrazione, giustificare lo status quo, ovvero un sistema in cui l’orizzonte temporale per il conseguimento degli obiettivi è sempre a breve termine e i dirigenti sono premiati per la loro incapacità. Uno dei principali problemi che le banche affrontano oggi, probabilmente – e che è tipico del sistema globale – è che la dirigenza ottiene gratifiche generose per aver raggiunto obiettivi di medio termine, ignorando il quadro globale, in un contesto di riferimento che favorisce l’imprudenza e l’assunzione di rischi “senza rete”, il tutto con il proprosito unico di far quadrare, il bilancio a ogni scadenza trimestrale, possibilmente generando guadagni, anche minimi (o almeno non finire in rosso rispetto al trimestre precedente).

Tuttavia, lo ripetiamo, occupare Wall Street non è sufficiente a imprimere un cambiamento di rotta. Ciò è possibile solo giocando un ruolo attivo che consenta di arrivare al timone, o almeno al timoniere. Le società a capitale pubblico sono molto interessate alle percezioni dei propri azionisti, in particolare se tra questi ci sono dei malpancisti. Tuttavia, l’auspicio è che nel momento in cui finirà l’occupazione della piazza, non finisca la lotta. Attrarre l’attenzione sulle differenze di bilancio non è abbastanza, ma un’azione concertata, pianificata e costante può conseguire quei risultati che cartelli colorati, slogan e aspra indignazione da soli non potrebbero mai generare.

 

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