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Addio a José Saramago, scrittore ribelle e "scomunicato"

Di David Spiegelman
Se gli fosse riservata l’estrema sorpresa di vedersi finalmente a tu per tu con il sempre disconosciuto Creatore, José Saramago ne sarebbe antagonista tenace; né – c’è da credere – gli mancherebbero gli argomenti dialettici. Il letterato lusitano, entrato nell’Ombra dopo un’esistenza trascorsa a macchinare una lanterna magica di personaggi emblematici, dal profondo di un Paese dimenticato dalla storia e dalla geografia, ha avuto un curioso destino tardivo.
 Alla vigilia di un tempo rigoglioso di esordi letterari sempre più loliteschi, due anni dopo la fioritura in Italia del sessantenne Gesualdo Bufalino, il coevo direttore di una piccola casa editrice di Lisbona e vicedirettore del principale quotidiano della Capitale stupefece il mondo con Memoriale del convento. Era l’avvio di una carriera che nel giro di sedici anni avrebbe condotto Saramago al cospetto del Re di Svezia, a ricevere il diploma e la medaglia più ambita da ogni scrittore.
La sua opera letteraria non va però banalizzata secondo il comodo inquadramento nelle ascisse e nelle ordinate delle estreme tensioni che lo avrebbero portato a sfidare pubblicisticamente la religione, prima nella forma del Cattolicesimo e poi nell’istituzione statale israeliana. Purtroppo, anche per lo stesso Saramago, negli ultimi anni il volenteroso polemista prese il sopravvento sul narratore, tanto che il primo avrebbe eliso il secondo nella reputazione generale.
Così l’immagine che l’autore lascia, al momento del congedo, poco corrisponde al suo profilo di prodigioso escogitatore di fantasmagorie letterarie. Il Memoriale resta infatti la sola costruzione monumentale narrativa del Novecento contrapponibile esteticamente a due grandi archetipi del realismo magico latinoamericano, come Grande Sertao di Joao Guimaraes Rosa e Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez, insignito del Nobel proprio nell’anno del primo successo di Saramago, a delineare il presagio di un passaggio di testimone.
La forza inconfondibile del romanziere portoghese risiede proprio nella capacità, di certo affinata negli anni di cimento nell’industria editoriale e nel giornalismo, di rielaborare mitopoieticamente la realtà, ibridandola con elementi del fantastico: tecnica che trova esaltazione nell’opera espressiva di un simbolico antinazionalismo, quel La zattera di pietra che vede la Penisola iberica staccarsi dall’ignorata Europa, per darsi un destino comune, oltre le storie incompatibili di Spagna e Portogallo.
L’ultimo tempo dello scrittore vide lancinare la vena anticattolica, nella prospettiva marxista di critica del trascendente come ipnosi distorsiva della mentalità delle masse, sublimata in un Vangelo secondo Gesù Cristo e in un Caino che gli sarebbero valsi l’irreversibile scomunica culturale vaticana. Non più tardi di ieri, infatti, il quotidiano della Santa Sede ha glossato la scomparsa di Saramago definendolo come «un uomo e un intellettuale di nessuna ammissione metafisica, fino all’ultimo inchiodato in una sua pervicace fiducia nel materialismo storico, alias marxismo… insonne al solo pensiero delle crociate, o dell’inquisizione, dimenticando il ricordo dei gulag, delle “purghe” dei genocidi, dei samizdat culturali e religiosi».
L’ambiguità di fronte al male del mondo è infatti il connotato ideologico che grava negativamente sull’opera di Saramago, così come su quelle di altri intellettuali marxisti di rito lukàcsiano come Sartre, che tornato dall’Unione Sovietica aveva deciso di nascondere lo sconcerto per il totalitarismo stalinista, concreto sbocco concentrazionario dell’ideologia comunista, «pour ne pas desesperer Billancourt», per non deludere le tute blu di Billancourt, la fabbrica Renault assurta a totem dell’operaismo francese.
Misurare però l’arte di Saramago con il metro dell’ideologia e della filosofia condurrebbe l’analisi su basi diverse da quelle di una visione non utilitaristica della letteratura, intesa come strumento di rappresentazione estetica dell’umana avventura. Dello scrittore scomparso resterà infatti l’opera forse più emblematica dello smarrimento esistenziale, della perdita di identità, della dissociazione da se stesso dell’uomo del Novecento: L’anno della morte di Ricardo Reis, romanzo di cui Saramago ebbe perfidamente a dire: «Antonio Tabucchi non mi perdonerà mai di averlo scritto. Erede, lui, di Pessoa, tanto nel fisico come nel mentale, ha visto spuntare tra le mani di qualcun altro – scrisse nei Quaderni di Lanzarote – quello che sarebbe stato la corona della sua vita».
Per la verità, il collega di origini italiane – da anni anch’egli tra i più seri candidati all’attenzione dell’Accademia di Svezia – ma da tempo residente tra Lisbona e Parigi, lontano da un Paese giudicato sfigurato dalla stessa malattia, il berlusconismo, sgradita proprio a Saramago che per via dell’insofferenza verso il premier avrebbe cambiato l’editore italiano, è stato comunque decisivo nella diffusione mondiale dell’opera di Fernando Pessoa. Ma Saramago, riprendendo il canone pirandelliano della dissoluzione del confine tra autore e personaggio, arriva a immaginare un convegno tra gli eteronimi pessoani sullo sfondo della morte, implausibile per un uomo di carta, di uno di loro, alla vigilia dello scoppio della guerra civile spagnola, prova generale del conflitto che di lì a poco avrebbe insanguinato il pianeta, creando le premesse per quell’instabilità permanente che infatti stiamo ancora vivendo. Basterebbe questo libro per renderlo capace di quel che solo può l’arte: esorcizzare il nulla.

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