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Preti di celluloide in una mostra fotografica, missione pastorale tra dissolvenza e titoli di coda

Di David Spiegelman
Nemmeno in un film dell’orrore, di quelli che si chiamano B-Movies, sarebbe potuto darsi, senza dubbi di sceneggiatura, quanto realmente accaduto giorni fa nella cattedrale gotica di Mechelen, con i meccanici e i tecnici della magistratura inquirente belga a scoperchiare, in nome della giustizia terrena, le tombe di due Principi della Chiesa. Le scansioni del tempo, in un’epoca in cui molto depone a favore dell’iperattivismo ossessivo di un’ansia neopositivista finalizzata a «chiudere duemila anni di parentesi cristiana», portano a ridosso cronologico di questa vicenda fiamminga l’iniziativa del cardinal Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano e quindi titolare della diocesi più popolata del pianeta, in un libro e una rassegna iconografica.
Se l’opera saggistica-pastorale del porporato riguarda “Povertà, obbedienza e celibato dei sacerdoti”, meno attinente alla stretta ortodossia della Chiesa del Terzo Millennio, aperta al mondo senza voler correre il rischio di farsene contaminare, è la mossa culturale collegata: una mostra fotografica destinata a raccontare l’immagine del prete nella storia del cinema. Allestita nel cortile del Palazzo Arcivescovile la mostra “Preti al cinema. I sacerdoti nell’immaginario cinematografico” si compone di un centinaio di riproduzioni fotografiche che ripercorrono le evoluzioni della figura del prete nella storia del cinema. La mostra sarà aperta al pubblico fino al 12 luglio (orari da lunedì a venerdì 9 – 19, il sabato 9 – 12.30).
A tutt’oggi, in virtù dello straordinario successo del ciclo specifico puntuale traduzione della saga guareschiana espressa in numerosi racconti, il sacerdote più popolare della storia del cinema è senz’altro il Don Camillo di Fernandel, contrapposto al Peppone di Gino Cervi; mentre ebbe sola collocazione televisiva, nel nostro Paese, il Padre Brown di Gilbert Keith Chesterton, impersonato da un sorprendente Renato Rascel in un fortunato sceneggiato seriale dei primi anni Settanta.
Sono tempi, questi, in cui l’istituzione ecclesiale rinnova l’attenzione al mondo del cinema: non molti giorni fa, in occasione del trentesimo anniversario dell’uscita nelle sale di tutto il mondo, addirittura l’“Osservatore Romano” si incaricava di tributare un sincero e incondizionato elogio a una pellicola finora considerata uno dei più riusciti musical della storia, scanzonato e anche politicamente scorretto per la verve fuori dalle righe dei protagonisti. Invece, secondo il quotidiano della Santa Sede, “The Blues Brothers” è nella sostanza un film profondamente cattolico, per molti dettagli di sceneggiatura tra cui la natura della missione («per conto di Dio», ça va sans dire) svolta da Jake & Elwood a favore dell’orfanotrofio gestito da una suora nel quale erano cresciuti. Ma sono anche giorni in cui la macchina da presa dei cineasti si rivolge alla Chiesa e alla sua storia senza intenzioni necessariamente danbrowniane: se un regista tedesco ha dedicato un biopic alla controversa figura della Papessa Giovanna, quel Nanni Moretti che in una fase di svolta della carriera decise di impersonare un sacerdote in crisi personale, ne “La messa è finita”, ha appena finito di lavorare a un film su un Pontefice appena eletto incerto se accettare la nomina: il suo “Habemus Papam”, con Michel Piccoli nei panni del contemporaneo Celestino V, è atteso nelle sale – salvo imprevisti morettiani, sempre prevedibili – in coincidenza con il Natale.
I sacerdoti nella storia del cinema hanno avuto una vita ancor più difficile e imprevedibile di quelli impegnati nella realtà di tutti i giorni. Hanno indossato la tonaca Aldo Fabrizi in “Roma città aperta” e un insospettabile Lucio Dalla nella commediola “Il santo patrono”, Vittorio Gassman non poteva non vestire i panni cardinalizi in un episodio (“Tantum ergo”) de “I nuovi mostri”, lo scalatore del K2 Achille Compagnoni che si prestò da dilettante al ruolo del cappellano militare ne “La grande guerra”. Il cinema ha prestato attenzione anche ai grandi eroi civili del nostro tempo: il don Pino Puglisi, soppresso dalla mafia, interpretato da Luca Zingaretti, oppure il padre Jozif Popieluszko, protagonista di un’opera del connazionale Rafal Wieczynski.
E sono solo alcuni esempi di una possibile galleria di ritratti sacerdotali di celluloide, senza ovviamente estendere lo sguardo fino alla surreale e provocatoria svedesona in tonaca nei sogni del protagonista de “La dolce vita”, o al difficile e doloroso personaggio di Bentivoglio in un oscuro film di Antonio Capuano, “Pianese Nunzio 14 anni a maggio”, non meno criticato dagli intellettuali di area cattolica di padre Carlo Mascolo, recente personaggio di Carlo Verdone.
Il sacerdote per immagini della mostra milanese è piuttosto quello che dovrebbe essere un prete: chiamato a rispondere davanti a Dio di tutta l’umanità, per la parte a lui affidata. Una responsabilità molto spesso troppo grande, che si può assolvere soltanto pagando un prezzo che può essere un anticipo di salvazione, quello della solitudine. E della necessaria dissolvenza, prima dei titoli di coda.

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