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Ecologia del vivere: Downshifting, il ridimensionamento come filosofia di vita.

Di Stefania Taruffi
Occorre rivalutare il ruolo del presente nella nostra esistenza, spesso schiacciata tra i ricordi di un ingombrante passato e le attese per un futuro che, stanti i ritmi e gli impegni della vita quotidiana, dovrà essere per forza di cose radioso, pena l’impossibilità di onorare le numerose cambiali, finanziarie, lavorative e affettive che ogni giorno ci troviamo costretti a firmare. Da qualche anno negli Stai Uniti, ma anche in molti altri Paesi dove lo sviluppo economico non si coniuga più con la possibilità di crescita personale anche in termini di soddisfazione riguardo alla propria esistenza, si sta diffondendo un movimento di pensiero che può essere ben compreso attraverso uno dei termini che più spesso vi ricorrono, il ‘downshifting’, che in italiano può più o meno essere tradotto come ‘ridimensionamento’.
La principale forma di ridimensionamento auspicata dalle tante persone che si riconoscono in questo filone di pensiero, è innanzitutto quella concernente gli orari di lavoro, lo stress, la carica di energia necessari a condurre un’esistenza dignitosa, spesso senza riuscirci, nell’ipercompetitivo mondo occidentale, dove gli sforzi quotidiani sembrano sempre più necessari a sostenere una stentata sopravvivenza piuttosto che a progettare un radioso futuro.
Ecco allora che il downshifting propone come alternativa il ritorno a ritmi di lavoro più umani, a luoghi di lavoro più amichevoli, a tenori di vita che necessariamente si ‘abbassano’ fino a escludere il debito, i molti consumi cui si può facilmente rinunciare, lo spreco generalizzato come sublimazione della crescita permanente; poiché spesso è impossibile vivere in questo modo nelle nostre città, il downshifting impone, per essere attuato, il trasferimento verso altri luoghi di vita, con il recupero di comunità dalle dimensioni minori, di cui è oltretutto ricco il nostro Paese, dove la vita ha un sapore più gradevole e sostenibile, dove le cose più importanti sono più semplici da realizzare, sottraendo costi e tempi di trasporto, di competizione, di acquisto del superfluo.
Poiché il downshifting per ciascuno di noi riguarda ciò che già siamo e che facciamo quotidianamente, ridimensionare in modo più sostenibile la propria esistenza per molti può significare dover abbandonare il mondo occidentale, ipersviluppato e ipercostoso, migrando in senso contrario verso aree del mondo dove ciò che si è conquistato durante l’esistenza può bastare per condurre una vita piena e ricca di soddisfazioni, anche interiori.
Provando a trasportare questa filosofia a un livello più generale, siamo sicuri che il downshifting riguardi solo la sfera privata dei cittadini e non possa invece essere preso come spunto per l’elaborazione di un nuovo modello di sviluppo per il terzo millennio, dove il paradigma della sostenibilità si afferma in ogni ambito della nostra vita, ivi comprese la gestione della cosa pubblica, dei meccanismi di selezione delle classi dirigenti e dei meccanismi alla base della convivenza sociale?
Anche chi non ha compiuto studi specifici di economia, avrà forse notato che la politica economica degli stati occidentali, il modello di valutazione delle imprese, lo stesso sistema delle pensioni si basano sull’assunto che vi sia crescita perenne; crescita del reddito nazionale complessivamente prodotto, della sua frazione  effettivamente disponibile per ciascuno di noi, dei prezzi dei beni e dei servizi, dell’età in cui finalmente ci si libera dall’onere di dover lavorare ogni giorno per buona parte della giornata effettivamente disponibile.
Ci siamo però accorti tutti, grazie anche alla crisi internazionale in cui siamo precipitati, che non è affatto detto che si possa crescere indefinitamente, specie se per far ciò, si deve ricorrere al debito pubblico e a quello privato, che finisce per condizionare le scelte politiche e personali, alla ricerca continua e spasmodica di nuovi mezzi per soddisfare quell’insostenibile condizione in cui ciascuno di noi è debitore e creditore di se stesso.
Potrebbe quindi essere forse arrivato il momento in cui, in nome di una nuova ecologia del vivere, imparassimo a sostituire il paradigma della crescita, dello sviluppo, del ‘più’ a ogni costo, con quello di un salubre ridimensionamento, in cerca di una sostenibilità dell’esistenza anche in termini di felicità personale e godimento del presente, come forse abbiamo disimparato a fare.
Può essere addirittura auspicabile, in questa logica, un ridimensionamento della ricchezza nazionale, misurata secondo i parametri economici tradizionali, se questa è accompagnata dall’annullamento (per pagamento, non per cancellazione) del mostruoso debito pubblico clientelarmente accumulato negli ultimi trent’anni, in cambio di una drastica riduzione delle tasse pagate, e quindi del reddito prodotto onestamente da ciascuno di noi che va a finanziare solo il pagamento degli interessi.
Chi ha detto, per esempio, che una diminuzione (di mercato, ovviamente, il dirigismo non si concilia con l’ecologia del vivere e con la ricerca di una sempre maggiore libertà personale) di alcuni prezzi, come quelli delle case, non sia di beneficio per il sistema; così come, pure, siamo sicuri che l’aumento dell’età pensionabile sia davvero ciò che noi tutti desideriamo? Riusciamo a vederci felici, motivati, desiderosi ogni mattina di ripetere ormai quasi settantenni quel glorioso cinquantennale gesto di varcare i tornelli del nostro posto di lavoro, a discapito di ciò che la nostra interiorità ci potrebbe richiedere?
E’ chiaro che tutto questo ha un prezzo, il prezzo del ‘meno’: meno debito, meno occupazione garantita per sempre, meno sprechi, in cambio di maggiore libertà personale, di una vita più piena di scelte effettive e alternative disponibili, di una destinazione del proprio reddito prodotto diversa dal pagamento dei debiti che altri hanno contratto a proprio esclusivo beneficio personale.
Un’ecologia del vivere che implica, per essere attuata compiutamente, una forte assunzione di responsabilità personale, una nuova forma di etica del ridimensionamento e della frugalità, alla ricerca di quella compatibilità economica, sociale, culturale e ambientale che abbiamo smarrito.
E che dovrebbe essere recuperata, in primis, da chi ha maggiore responsabilità nella gerarchia sociale, specie se ha preminenti incarichi pubblici, dalle classi dirigenti nei meccanismi di selezione e diffusione della leadership, da chi possiede o gestisce mezzi di comunicazione di massa a largo impatto sull’opinione pubblica; una tendenza che in Italia, sembra davvero essere cominciata. O almeno, molti italiani stanno cominciando a pensarci.

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